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1861-2011:ricordiamo insieme i 150 anni dell'unità d'Italia.
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Antonietta68



Registrato: 03/04/07 09:43
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MessaggioInviato: Dom Giu 12, 2011 12:36    Oggetto: Rispondi citando


Mio nonno materno combattè in Libia durante la seconda guerra mondiale e fu l'unico superstite del suo battaglione.Ci raccontò che durante la guerra lui non aveva mai combattuto seriamente,aveva paura sia di sparare che di essere ucciso.S'imboscava quando poteva e grazie a questa sua "predisposizione" si è salvato.Passò molti giorni senza bere e mangiare nel deserto,per dissetarsi beveva la sua pipì.Quando i soldati lo videro arrivare alla base credettero di vedere un fantasma,perchè avevano saputo che l'intero battaglione era morto.
Dopo la guerra mio nonno ha fatto il musicista su svariate navi da crociera,suonava il clarinetto e il sassofono,e ogni volta che tornava a casa la nonna rimaneva incinta Laughing Ricordo tutti i racconti che ci faceva,era un macchiettista,prima di raccontare una barzelletta incominiciava a ridere lui per primo.Era un amante della vita,l'ha vissuta sempre al massimo nonostante la miseria.Nel dopoguerra,quando la fame era tanta,mia nonna diceva che per mangiare aspettavano l'arrivo di mio nonno,nella speranza che lo pagassero.Ha fatto sempre il musicista,e da autodidatta ha imparato a suonare quasi tutti gli strumenti e a leggere la musica,suonava sia con l'orecchio che leggendo gli spartiti.Lui mi ha trasmesso l'amore per l'arte,per la musica,per tutto ciò che di bello da la vita.Pensate che non aveva mai imparato a guidare,girava in motocicletta,ma nonostante questo ha visto tutta l'Italia e gran parte dell'Europa.Infatti,grazie al suo lavoro che poi è stato anche quello dei miei zii materni,ha girato parecchio,ha suonato sia nei teatri,sia nelle piazze e sia ai matrimoni.In campania i matrimoni sono sfarzosi,specialmente tra gli anni 60 e 90,ai matrimoni era d'obbligo avere i musiciati,ma lo era altrettanto in chiesa.
Quando mi sono sposata io,tredici anni e mezzo fa,ho avuto dei musicisti meravigliosi in chiesa;l'arpa,due violini,un violoncello,l'organo,un percussinista che ha suonato i campanelli,un soprano e un tenore.Questo perchè io amo la musica,ho studiato anche al conservatorio per un pò di anni,e poi c'erano i miei parenti che conoscevano questi musicisti ed ho avuto il privilegio di sentirli suonare al mio matrimonio.
Unica pecca nonno non c'era,se nè andato nel '91,ma in quel giorno era con me,e sono sicura che è stato contento di me.Mio nonno è stato fondamentale nella mia vita,è stato più di un padre,più di un amico,mi ha viziato,coccolato,è stato sempre mio complice.Lui mi ha comprato il primo pianoforte,lui mi ha regalato il primo stereo,lui mi accompagnava a lezione di pianoforte,con il pullman,quando papà non poteva,lui veniva a parlare con i professori a scuola,lui era sempre in prima fila ai saggi musicali e lui mi ha dato il dolore più grande quando è mancato.
Ciao nonno,ti voglio tanto bene.

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Antonietta68



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MessaggioInviato: Dom Giu 12, 2011 12:41    Oggetto: Rispondi citando


genziana ha scritto:

e in attesa di RAI UNO oggi 15.40 da Iesolo
Very Happy e grazie Adriana per l'avviso puntuale!













Frecce Tricolori! nel cielo della prima Capitale d'Italia

Torino 11 giugno 2011 Raduno Aeronautica/Aviazione





      Foto di Fabio Artesi

      per il Centocinquantenario dell'Unità d'Italia


Grazie a Giuly e ad Adriana.
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Antonietta68



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MessaggioInviato: Sab Giu 25, 2011 19:45    Oggetto: Rispondi citando





Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878) è stato l'ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d'Italia (dal 1861 al 1878). Egli, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso, conte di Cavour, portò infatti a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come "Padre della Patria", nell'iscrizione che compare nel monumento nazionale che da lui prende il nome di Vittoriano, sito a Roma, in Piazza Venezia.

LA BIOGRAFIA

Vittorio Emanuele era il primogenito di Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, e di Maria Teresa d'Asburgo-Toscana.

Nacque a Torino nel palazzo della famiglia paterna e trascorse i primi anni di vita a Firenze. Il padre era uno dei pochi membri maschi di Casa Savoia, seppur del ramo cadetto.Dopo la morte del re di Sardegna e di suo fratello, Carlo Alberto sarebbe divenuto il legittimo re. Tuttavia, in seguito ai moti del 1821, che portarono all'abdicazione di Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto fu costretto a trasferirsi con la sua famiglia a Novara, dato il suo coinvolgimento nei disordini. Il nuovo re Carlo Felice, che non amò mai Carlo Alberto, gli fece però ben presto pervenire un ordine, in cui gli ingiungeva di trasferirsi in Toscana, completamente fuori dal regno.

Avvenne così la partenza per Firenze, capitale del granducato retto dal nonno materno di Vittorio, Ferdinando III di Toscana. Nel capoluogo toscano venne affidato al precettore Giuseppe Dabormida, che educò i figli di Carlo Alberto ad una disciplina militaresca.

In ragione della grande differenza somatica con il padre, già visibile in tenera età, cominciarono a circolare voci sul fatto che Vittorio Emanuele non fosse figlio della coppia reale, ma si trattasse di un bimbo d'origine popolana, preso per sostituire il vero figlio di Carlo Alberto, morto ancora in fasce a causa di un incendio nella residenza del nonno.

In effetti, è difficile credere che il primo Re d'Italia, di bassa statura, tracagnotto e sanguigno, abbia qualche riscontro genetico nella figura magra e longilinea ( 2,04 m) del padre, invece replicata nel fratello Ferdinando.

Alcuni storici moderni hanno dato particolare credito a questa ipotesi, negata per oltre un secolo, basando le loro deduzioni, oltre che sulle evidenti disparità somatiche, anche sull'analisi del reticente verbale, redatto dal caporale Galluzzo per rendere rapporto ai superiori, circa l'incendio sviluppatosi nella stanza del palazzo fiorentino, ove si trovava il neonato Vittorio Emanuele con la nutrice. Gli analisti rilevano come sia poco credibile che un incendio abbia potuto uccidere la nutrice, lasciando illeso l'infante.

Quanto al presunto vero padre di Vittorio Emanuele, già nell'800, circolava il nome di tale "Tanaca", un macellaio della campagna toscana che aveva denunciato in quegli stessi giorni la scomparsa di un suo figlio nato in quegli stessi giorni e che in seguito sarebbe divenuto improvvisamente ricco. Altri sostennero che l'autore della sostituzione sarebbe stato un certo Mazzucca, anche lui macellaio che aveva la sua bottega nei pressi di Porta Romana.

Altri storici nel riferire questi eventi esprimono dubbi sulla loro autenticità o li confinano nell'ambito del pettegolezzo.

In ogni caso, i genitori del bambino erano ancora molto giovani e avrebbero potuto avere un altro figlio maschio (come del resto avvenne) qualora il primogenito fosse effettivamente morto in un incidente.


Palazzo Carignano, progettato da Guarino Guarini: una targa sulla sommità della facciata ricorda che vi nacque Vittorio Emanuele II




Vittorio Emanuele da bambino insieme alla madre,Maria Teresa di Toscana, ed al fratello Ferdinando

LA SUA GIOVINEZZA

Quando, nel 1831, il padre Carlo Alberto fu chiamato a succedere a Carlo Felice di Savoia, Vittorio Emanuele lo seguì a Torino, dove fu affidato al conte Cesare di Saluzzo, affiancato da uno stuolo di precettori, tra cui il generale Ettore De Sonnaz, il teologo Andrea Charvaz, lo storico Lorenzo Isnardi ed il giurista Giuseppe Manno.

Gli sforzi dei dotti precettori ebbero, però, scarso effetto sulla refrattarietà agli studi di Vittorio Emanuele che, di gran lunga, preferiva dedicarsi ai cavalli, alla caccia ed alla sciabola, oltre che all'escursionismo in montagna (il 27 luglio 1838 Vittorio Emanuele salì in vetta al Rocciamelone), rifuggendo la grammatica, la matematica, la storia e qualunque altra materia che richiedesse lo studio o anche la semplice lettura.

Ottenuto il grado di generale, sposò la cugina Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena nel 1842. Ebbe inoltre un'intensa relazione con Laura Bon dalla quale ebbe una figlia, Emanuela (1853) che fu creata dallo stesso Re contessa di Roverbella.

Carlo Alberto, acclamato come sovrano riformatore, concessa la costituzione il 4 marzo 1848 e dichiarata guerra all'Austria, apriva intanto il lungo periodo noto come Risorgimento Italiano entrando in Lombardia con truppe piemontesi e italiane accorse in suo aiuto. Gli esiti della prima guerra di indipendenza andarono però assai male per il Regno di Sardegna, abbandonato dai sostenitori: sconfitto il 25 luglio a Custoza e il 4 agosto a Milano negoziò un primo armistizio il 9 agosto. Riprese le ostilità il 20 marzo 1849, il 23 marzo, dopo una violenta battaglia nella zona presso la Bicocca, Carlo Alberto inviò il generale Luigi Fecia di Cossato per trattare la resa con l'Austria. Le condizioni furono durissime e prevedevano la presenza di una guarnigione austriaca nelle piazzeforti di Alessandria e di Novara. Carlo Alberto, al cospetto di Wojciech Chrzanowski, Carlo Emanuele La Marmora, Alessandro La Marmora, Luigi Cadorna, di Vittorio Emanuele e del figlio Ferdinando di Savoia-Genova, firmò la sua abdicazione e, con un falso passaporto, riparò a Nizza, da dove partì per l'esilio in Portogallo.

La notte stessa, poco prima della mezzanotte, Vittorio Emanuele II si recò presso una cascina di Vignale, dove l'attendeva il generale Radetzky, per nuovamente trattare la resa con gli austriaci, ovvero per la sua prima azione da sovrano. Ottenuta una attenuazione delle condizioni contenute nell'armistizio, (il Radetzky non voleva spingere il giovane sovrano nelle braccia dei democratici), Vittorio Emanuele II diede però assicurazione di voler agire con la massima determinazione contro il partito democratico, al quale il padre aveva consentito tanta libertà e che l'aveva condotto verso la guerra d'indipendenza contro l'Austria, sconfessando pienamente l'operato del padre. Ma si sarebbe rifiutato di revocare la costituzione (Statuto), malgrado le pressioni dell'Austria, unico sovrano in tutta la Penisola a conservarla.


Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena (1822–1855) regina di Sardegna e moglie di Vittorio Emanuele II.


IL RE GALANTUOMO

Dopo la sconfitta di Custoza e l'abdicazione di Carlo Alberto gli storici piemontesi cominciarono a costruire la leggenda di Vittorio Emanuele II, re galantuomo, che animato da sentimenti patriottici e per la difesa delle libertà costituzionali si oppose fieramente alle richieste di Radetzky di abolire lo statuto albertino.

In vero fu invece proprio il generale austriaco che attenuò le clausole del trattato per non mettere in difficoltà il giovane re e mantenendo formalmente in vita lo Statuto dargli anzi la possibilità di opporsi alle richieste radicali dei democratici ancora presenti nel Parlamento subalpino, quelli che a tutti i costi avevano voluto e ottenuto da Carlo Alberto la ripresa della guerra dopo la sconfitta della prima battaglia di Custoza. In questo modo Vittorio Emanuele avrebbe potuto condurre una politica moderata e conservatrice nell'ambito del rispetto formale dello Statuto.

Il giovane re si dichiarò infatti amico degli austriaci e rimproverando al padre la debolezza di non aver saputo opporsi ai democratici prometteva una dura politica nei loro confronti con l'abolizione dello statuto.
« La verità pertanto è che Vittorio Emanuele non salvò patriotticamente la costituzione, ma al contrario disse di voler diventare amico degli Austriaci e ristabilire a un maggior grado il potere monarchico. »


Questa nuova versione della figura del sovrano è emersa con la scoperta e la pubblicazione di documenti diplomatici austriaci su i colloqui tenutosi a Vignale dai quali emerge quanto il generale Radetzky il 26 marzo scriveva al governo di Vienna:
« Il re ebbe ieri l'altro un personale colloquio con me agli avamposti, nel quale dichiarò apertamente la sua ferma volontà di voler da parte sua dominare il partito democratico rivoluzionario, al quale suo padre aveva lasciato briglia sciolta, così che aveva minacciato lui stesso e il suo trono; e che per questo gli occorreva soltanto un po' più di tempo, e specialmente di non venir screditato all'inizio del suo regno [...] Questi motivi sono tanto veri che io non potei metterli in dubbio, perciò cedetti e credo di aver fatto bene, perché senza la fiducia del nuovo re e la tutela della sua dignità nessuna situazione nel Piemonte può offrirci una garanzia qualsiasi di tranquilltà del paese per il prossimo avvenire. »


Questa rappresentazione del re galantuomo come illiberale è confermata in quanto riportato in una lettera privata al nunzio apostolico del novembre del 1849 dove il re dichiara di
« non vedere alcuna utilità nel governo costituzionale, anzi di non attendere altro che il momento opportuno per disfarsene »


Charles Adrien His De Butenval, plenipotenziario francese a Torino scrisse il 16 ottobre 1852 a Parigi che Vittorio Emanuele è un reazionario che si serve dello Statuto per mantenere come sostenitori e alleati di sè e della sua dinastia gli inquieti emigrati italiani e i liberali rifugiatisi a Torino dopo i fatti del 1848-49 dei quali egli si atteggia a protettore perché gli verranno utili per giustificare una futura guerra regia di conquista.


PROCLAMA DI MOCALIERI.

Gli incontri ufficiali tra Vittorio Emanuele e il feldmaresciallo Josef Radetzky si tennero dalla mattina al pomeriggio del 24 marzo, sempre a Vignale e l'accordo venne siglato il 26 marzo a Borgomanero. Vittorio Emanuele prometteva di sciogliere i corpi volontari dell'esercito e cedeva agli austriaci la fortezza di Alessandria ed il controllo dei territori compresi tra il Po, il Sesia e il Ticino, oltre a rifondere i danni di guerra con l'astronomica cifra di 75 milioni di franchi francesi. Questi gli accordi dell'armistizio che, in ossequio all'articolo 5 dello Statuto Albertino, dovevano essere ratificati dalla Camera, al fine di poter siglare l'Atto di Pace.

Il 29 marzo 1849 il nuovo Re si presentò davanti al Parlamento per pronunciare il giuramento di fedeltà e, il giorno dopo, lo sciolse indicendo le nuove elezioni.

I 30.000 elettori che si recarono alle urne il 15 luglio espressero un parlamento troppo "democratico" che si rifiutò di approvare la pace che il Re aveva già firmato con l'Austria. Vittorio Emanuele, dopo aver promulgato il proclama di Moncalieri, con cui si invitava il popolo a scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello Stato, sciolse nuovamente il parlamento, per fare in modo che i nuovi eletti fossero di idee pragmatiche. Il nuovo Parlamento risultò composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d'Azeglio. Il 9 gennaio 1850 il trattato di pace con l'Austria venne, infine, ratificato.


SACCO DI GENOVA

All'indomani dell'armistizio di Vignale, la città di Genova si sollevò contro la monarchia sabauda e il governo, forse anche spinta da antichi umori repubblicani e indipendentisti, riuscendo a cacciare dalla città l'intera guarnigione regia. Alcuni soldati furono linciati dai rivoltosi.

Vittorio Emanuele II, in accordo col governo, inviò subito un corpo di bersaglieri, appoggiati da numerosi pezzi d'artiglieria e guidati dal generale Alfonso La Marmora; in pochi giorni la rivolta fu sedata. Il pesante bombardamento e le successive azioni di saccheggio e stupro perpetrate da militari portarono alla sottomissione del capoluogo ligure, al prezzo di 500 morti tra la popolazione.

Compiaciuto per la repressione operata, Vittorio Emanuele scrisse una lettera d'elogio al La Marmora (aprile 1849), definendo i rivoltosi "vile et infecte race de canailles" (vile e infetta razza di canaglie) e invitandolo, comunque, a garantire una maggiore disciplina da parte dei soldati.

L'ARRIVO DI CAVOUR.

Già candidatosi al parlamento nell'aprile 1848, Cavour vi entrò in giugno dello stesso anno, mantenendo una linea politica indipendente, cosa che non lo escluse da critiche ma che lo mantenne in una situazione di anonimato fino alla proclamazione delle leggi Siccardi, che prevedevano l'abolizione di alcuni privilegi relativi alla Chiesa, già abrogati in molti stati europei. L'attiva partecipazione del Cavour alla discussione sulle leggi ne valse l'interesse pubblico, e alla morte di Santorre di Santarosa, egli divenne nuovo ministro dell'agricoltura, cui si aggiunse la carica, dal 1851, di ministro delle finanze del governo d'Azeglio.

Promotore del cosiddetto connubio, Cavour divenne il 4 novembre 1852 primo ministro del Regno, nonostante l'avversione che Vittorio Emanuele II nutriva nei suoi confronti. Nonostante l'indiscusso connubio politico, fra i due mai corse grande simpatia, anzi Vittorio Emanuele più volte ne limitò le azioni, arrivando persino a mandargli in fumo svariati progetti politici, alcuni dei quali anche di notevole portata


LA GUERRA IN CRIMEA

Deciso a manifestare il problema dell'Italia agli occhi dell'Europa, Cavour vide nella guerra russo-turca scoppiata nel giugno 1853 un'irripetibile opportunità: contro Nicola I di Russia, che aveva occupato la Valacchia e la Moldavia, allora terre turche, si mossero il Regno Unito e la Francia, in cui Cavour sperava di trovare degli alleati.

Vittorio Emanuele II sembrava favorevole ad un conflitto, se così s'espresse all'ambasciatore francese:
« Se noi fossimo battuti in Crimea, non avremmo altro da fare che ritirarci, ma se saremo vincitori, benissimo! questo varrà per i Lombardi assai meglio di tutti gli articoli che i ministri vogliono aggiungere al trattato [...] se essi non vorranno marciare, io sceglierò altri che marceranno... »


Ottenuta l'approvazione di Vittorio Emanuele, Cavour iniziò le trattative con i paesi belligeranti, che andarono per le lunghe per i contrasti tra i ministri. Infine, il 7 gennaio 1855, i governi francesi ed inglesi imposero un ultimatum al Piemonte: entro due giorni approvare o no l'entrata in guerra. Vittorio Emanuele, letto il messaggio, meditò di approvare il piano che aveva da tempo: sciogliere nuovamente le camere e imporre un governo favorevole alla guerra. Non ne ebbe il tempo: Cavour convocò la notte stessa il Consiglio dei ministri e, alle nove di mattina del giorno dopo, dopo una nottata che comportò la dimissione del Dabormida, con soddisfazione poté affermare la partecipazione della Sardegna alla Guerra di Crimea.
La battaglia della Cernaia

Fu Alfonso La Marmora a capitanare la spedizione che, da Genova, salpò verso l'Oriente: i Piemontesi inviavano un contingente di 15.000 uomini. Costretto a rimanere relegato nelle retrovie sotto il comando britannico, La Marmora riuscì a far valere le sue ragioni capitanando egli stesso le truppe nella battaglia della Cernaia, che risultò un trionfo. L'eco della vittoria riabilitò l'esercito sardo, fornendo a Vittorio Emanuele II l'opportunità di un viaggio a Londra e a Parigi per sensibilizzare i regnanti locali alla questione piemontese. In particolare, premeva al Re di parlare con Napoleone III,che sembrava avere maggiori interessi rispetto ai britannici sulla Penisola.

Nell'ottobre 1855 iniziarono a circolare voci di pace, che la Russia sottoscrisse a Parigi (Congresso di Parigi). Il Piemonte, che aveva posto come condizione della sua partecipazione alla guerra una seduta straordinaria per trattare i temi dell'Italia, per voce di Cavour condannò il governo assolutistico di Ferdinando II di Napoli prevedendo gravi disordini se nessuno avesse risolto un problema ormai diffuso in quasi tutta la Penisola: l'oppressione sotto un governo straniero.

Ciò non piacque al governo austriaco, che si sentiva chiamato in causa, e Karl Buol, ministro degli esteri per Francesco Giuseppe d'Austria, s'espresse in questi termini:
« L'Austria non può ammettere il diritto che il Conte di Cavour ha attribuito alla corte di Sardegna di alzare la voce a nome dell'Italia. »


In ogni caso, la partecipazione della Sardegna ai trattati di Parigi suscitò ovunque grande gioia. Screzi avvennero tra Torino e Vienna in seguito ad articoli propagandistici anti-sabaudi e anti-asburgici, mentre tra Buol e Cavour si chiedevano scuse ufficiali: alla fine, il 16 marzo, Buol ordinò ai suoi diplomatici di lasciare la capitale sarda, cosa che anche Cavour replicò il 23 marzo stesso. I rapporti diplomatici erano ormai rotti.

In un clima internazionale così teso, l'italiano Felice Orsini attentò alla vita di Napoleone III facendo esplodere tre bombe contro la carrozza imperiale, che rimase illesa, provocando otto morti e centinaia di feriti. Nonostante le aspettative dell'Austria, che sperava nell'avvicinamento di Napoleone III alla sua politica reazionaria, l'Imperatore francese venne convinto abilmente da Cavour che la situazione italiana era giunta ad un punto critico e necessitava di un intervento sabaudo.

Fu così che si gettarono le basi per un'alleanza sardo-francese, nonostante le avversità di alcuni ministri di Parigi, specialmente di Alessandro Walewski. Grazie anche all'intercessione di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione e di Costantino Nigra, entrambi istruiti adeguatamente da Cavour, i rapporti tra Napoleone e Vittorio Emanuele divennero sempre più prossimi.

Nel luglio del 1858, con il pretesto di una vacanza in Svizzera, Cavour si diresse a Plombières, in Francia, dove incontrò segretamente Napoleone III. Gli accordi verbali che ne seguirono e la loro ufficializzazione nell'alleanza sardo-francese del gennaio 1859, prevedevano la cessione alla Francia della Savoia e di Nizza in cambio dell'aiuto militare francese, cosa che sarebbe avvenuta solo in caso di attacco austriaco. Napoleone concedeva la creazione di un Regno dell'Alta Italia, mentre voleva sotto la sua influenza l'Italia centrale e meridionale. A Plombières Cavour e Napoleone decisero anche il matrimonio tra il cugino di quest'ultimo, Napoleone Giuseppe Carlo Paolo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele.
Dipinto conservato a Palazzo Madama a Torino, raffigurante Vittorio Emanuele II nell'anno della sua incoronazione come Re di Sardegna

UN GRIDO DI DOLORE

La notizia dell'incontro di Plombières trapelò nonostante tutte le precauzioni. Napoleone III non contribuì a mantenere il segreto delle sue intenzioni, se esordì con questa frase all'ambasciatore austriaco:
« Sono spiacente che i nostri rapporti non siano più buoni come nel passato; tuttavia, vi prego di comunicare all'Imperatore che i miei personali sentimenti nei suoi confronti non sono mutati. »


Dieci giorni dopo, il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II si rivolse al parlamento sardo con la celebre frase del «grido di dolore», il cui testo originale è conservato nel castello di Sommariva Perno.
« Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d'Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi! »

(Vittorio Emanuele II, 10 gennaio 1859)

In Piemonte, immediatamente, accorsero i volontari, convinti che la guerra fosse imminente, e il Re iniziò ad ammassare le truppe sul confine lombardo, presso il Ticino. Ai primi di maggio 1859, Torino poteva disporre sotto le armi di 63.000 uomini. Vittorio Emanuele prese il comando dell'esercito e lasciò il controllo della cittadella di Torino al cugino Eugenio di Savoia-Carignano. Preoccupata dal riarmo sabaudo, l'Austria pose un ultimatum a Vittorio Emanuele II, su richiesta anche dei governi di Londra e Pietroburgo, che venne immediatamente respinto. Così giudicò, sembra, Massimo d'Azeglio, la notizia dell'ultimatum asburgico:
« l'Ultimatum è uno di quei terni al lotto che accadono una volta in un secolo »


Era la guerra. Francesco Giuseppe ordinò di varcare il Ticino e di puntare sulla capitale piemontese, prima che i francesi potessero accorrere in soccorso.


ITALIA E VITTORIO EMANUELE

Ritiratisi gli austriaci da Chivasso, i franco-piemontesi sbaragliarono il corpo d'armata nemico presso Palestro e Magenta, arrivando a Milano l'8 giugno 1859. I Cacciatori delle Alpi, capitanati da Giuseppe Garibaldi, rapidamente occuparono Como, Bergamo, Varese e Brescia: soltanto 3.500 uomini, male armati, che ormai stavano marciando verso il Trentino. Ormai le forze asburgiche si ritiravano da tutta la Lombardia.

Decisive le battaglie tra Solferino e San Martino: sembra che, poco prima dello scontro presso San Martino, Vittorio Emanuele II così parlò alle truppe, in piemontese:
(Pms)
« Fieuj, o i pioma San Martin o j'àuti an fan fé San Martin a noi! »
(IT)
« Ragazzi, o prendiamo San Martino o gli altri fanno fare San Martino a noi! »

("far San Martino" in piemontese vuol dire "traslocare", "sloggiare").

Moti insurrezionali scoppiarono allora un po' ovunque in Italia: Massa, Carrara, Modena, Reggio, Parma, Piacenza. Leopoldo II di Toscana, impaurito dalla piega che avevano preso gli avvenimenti, decise di fuggire verso il Nord Italia, nel campo dell'imperatore Francesco Giuseppe. Napoleone III, osservando una situazione che non seguiva i piani di Plombières e iniziando a dubitare che il suo alleato volesse fermarsi alla conquista dell'Alta Italia, dal 5 luglio iniziò a stipulare l'armistizio con l'Austria, che Vittorio Emanuele II dovette sottoscrivere, mentre i plebisciti in Emilia, Romagna e Toscana confermavano l'annessione al Piemonte: il 1º ottobre papa Pio IX ruppe i rapporti diplomatici con Vittorio Emanuele.

L'edificio che si era venuto a creare si trovò in difficoltà in occasione della pace di Zurigo firmata dal Regno di Sardegna solo il 10/11 novembre 1859, che, invece rimaneva fedele all'opposto principio del ritorno dei sovrani spodestati e alla costruzione di una federazione, con a capo il Papa, e che avrebbe compreso anche il Veneto austriaco, con tanto di esercito federale.
Vittorio Emanuele II, in abito da caccia, nel Palazzo Nazionale di Ajuda, Lisbona

Ciò nonostante di lì a pochi mesi si venivano a creare le opportunità per l'unificazione intera della Penisola. Alla volontà di Garibaldi di partire con dei volontari alla volta della Sicilia, il governo pareva molto scettico, per non dire ostico. C'erano, è vero, segni di amicizia tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che si stimavano a vicenda, ma Cavour in primo luogo considerava la spedizione siciliana come un'azione avventata e dannosa per la sopravvivenza stessa dello stato sardo.

Sembra che Garibaldi abbia più volte ribadito, per far acconsentire alla spedizione, che:
« In caso si faccia l'azione, sovvenitevi che il programma è: Italia e Vittorio Emanuele »


Nonostante l'appoggio del Re, ebbe la meglio Cavour, che privò in questo modo la campagna garibaldina dei mezzi necessari. Che il Re abbia, infine, approvato la spedizione, non si può sapere. Certo è che Garibaldi trovò a Talamone, quindi ancora nel Regno di Sardegna, i rifornimenti di cartucce. Dura fu la protesta diplomatica: Cavour e il Re dovettero assicurare all'Ambasciatore prussiano di non essere al corrente delle idee di Garibaldi.
Vittorio Emanuele incontra Garibaldi presso Teano.

Giunto in Sicilia, Garibaldi assicurava l'isola, dopo aver sconfitto il malridotto esercito borbonico, a «Vittorio Emanuele Re d'Italia». Già in quelle parole si prefigurava il disegno del Nizzardo, che non si sarebbe certo fermato al solo Regno delle Due Sicilie, ma avrebbe marciato su Roma. Tale prospettiva cozzava contro i progetti piemontesi, che adesso vedevano incombere il pericolo repubblicano e rivoluzionario e, soprattutto, temevano l'intervento di Napoleone III nel Lazio. Vittorio Emanuele, alla testa delle truppe piemontesi, invase lo Stato Pontificio, sconfiggendone l'esercito nella Battaglia di Castelfidardo. Napoleone III non poteva tollerare l'invasione delle terre papali, e più volte aveva cercato di dissuadere Vittorio Emanuele II dall'invasione delle Marche, comunicandogli, il 9 settembre, che:
« Se davvero le truppe di V.M. entrano negli stati del Santo Padre, sarò costretto ad oppormi [...] Farini mi aveva spiegato ben diversamente la politica di V.M. »


L'incontro con Garibaldi, passato alla storia come "incontro di Teano" avvenne il 26 ottobre 1860: veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio Emanuele II su tutti i territori dell'ex Regno delle Due Sicilie.


Vittorio Emanuele incontra Garibaldi presso Teano.

VITTORIO EMANUELE II E NON I

Viva Verdi. Questo era stato lo slogan delle insurrezioni anti-austriache nel nord Italia. Ma i patrioti non volevano solo esaltare la figura di un grande musicista, quanto propagandare l'Unità nazionale sotto 'V'ittorio 'E'manuele 'R'e 'D'''I'talia (Viva V.E.R.D.I. = Viva Vittorio Emanuele Re D'Italia). E, con l'entrata di Vittorio Emanuele a Napoli, sembrava ormai che la proclamazione del Regno fosse imminente, appena Francesco II avesse capitolato con la fortezza di Gaeta.

Fatto rinnovare il parlamento da Cavour, la prima seduta che comprendeva deputati di tutte le regioni annesse (tramite plebiscito), avvenne il 18 febbraio 1861. Il 17 marzo il parlamento proclamò la nascita del Regno d'Italia, stipulata dall'articolo:
« Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d'Italia »


La formula venne però aspramente contestata dalla sinistra, che avrebbe preferito vincolare tale il titolo regio al popolo. Così, infatti, il deputato Brofferio propose di cambiare l'articolo:
« Vittorio Emanuele è proclamato dal popolo re d'Italia »


eliminando, quindi, il numerale II in favore del titolo "Vittorio Emanuele I d'Italia". La proposta non venne approvata, a sottolineare il carattere di estensione del dominio del Regno di Sardegna sul resto dell'Italia, piuttosto che la nascita di un nuovo stato. Quando, nel 1874, Vittorio Emanuele decise di celebrare il proprio giubileo (venticinquesimo dall'incoronazione), egli si attirò le critiche di chi non mancò di osservare come Giacomo VI di Scozia avesse deciso di intitolarsi Giacomo I d'Inghilterra divenendone il sovrano e lo stesso avesse fatto Enrico III di Navarra divenuto Enrico IV di Francia.


Il Re Vittorio Emanuele assume il titolo di Re d'Italia 17 marzo 1861

ROMA CAPITALE

All'unità d'Italia mancavano ancora importanti tasselli, tra cui il Veneto, il Trentino, il Friuli, il Lazio, l'Istria e Trieste. Il progetto era quello di porre la sede reale a Roma, ma questo avrebbe significato, per Torino, la perdita di un primato in auge da trecento anni. Tra il 21 e il 22 settembre 1864 scoppiarono sanguinosi tumulti per le vie della città, che ebbero come risultato una trentina di morti e oltre duecento feriti, appena si seppe della decisione di trasferire la capitale a Firenze. Vittorio Emanuele avrebbe voluto preparare la cittadinanza alla notizia, al fine di evitare scontri, ma la notizia in qualche modo era trapelata. Il malcontento era generale, e così descrisse la situazione Olindo Guerrini:
« Oh, i presagi tristi per l'avvenire di Torino che si facevano al tempo del trasporto della capitale! E li facevano i Torinesi stessi, che per un momento perdettero la fiducia in sé medesimi. »


In seguito a nuovi fatti di cronaca, che comportarono il ferimento di alcuni delegati stranieri e violente sassaiole, Vittorio Emanuele II mise la città davanti al fatto compiuto facendo pubblicare sulla Gazzetta questo annuncio:
« Questa mattina, alle ore 8.00, S.M. il Re è partito da Torino per Firenze, accompagnato da S.E. il presidente del Consiglio dei Ministri »


Vittorio Emanuele riceveva così gli onori dei Fiorentini, mentre oltre 30.000 funzionari di corte si trasferirono in città. La popolazione, abituata al modesto numero dei ministri granducali, si trovò spiazzata di fronte all'amministrazione del nuovo regno, che intanto aveva siglato l'alleanza con la Prussia contro l'Austria.

Il 21 giugno 1866 Vittorio Emanuele lasciava Palazzo Pitti diretto al fronte, per conquistare il Veneto. Sconfitto a Lissa e a Custoza, il Regno d'Italia ottenne comunque Venezia in seguito ai trattati di pace succeduti alla vittoria prussiana.
5 lire del 1874 raffiguranti Vittorio Emanuele II

Roma rimaneva l'ultimo territorio ancora non inglobato dal nuovo regno: Napoleone III manteneva l'impegno di difendere lo Stato Pontificio e le sue truppe erano stanziate nei territori pontifici. Vittorio Emanuele stesso non voleva prendere una decisione ufficiale: attaccare o no. Urbano Rattazzi, che era divenuto primo ministro, sperava in una sollevazione degli stessi Romani, cosa che non avvenne. La sconfitta riportata nella Battaglia di Mentana aveva gettato poi numerosi dubbi sull'effettiva riuscita dell'impresa, che poté avvenire solo con la caduta, nel 1870, di Napoleone III. L'8 settembre fallì l'ultimo tentativo di ottenere Roma con mezzi pacifici, e il 20 settembre il generale Cadorna aprì una breccia nelle mura romane. Vittorio Emanuele ebbe a dire:
« Con Roma capitale ho sciolto la mia promessa e coronato l'impresa che ventitré anni or sono veniva iniziata dal mio magnanimo genitore. »


Però, quando gli eccitati ministri Lanza e Sella gli presentarono il risultato del plebiscito di Roma e Lazio, il Re rispose a Sella in piemontese:

"Ch'a staga ciuto; am resta nen àut che tireme 'n colp ëd revòlver; për lòn ch'am resta da vive a-i sarà nen da pijé." (Stia zitto; non mi resta altro che tirarmi un colpo di pistola; per il resto della mia vita non ci sarà niente più da prendere.


5 lire del 1874 raffiguranti Vittorio Emanuele II


Con Roma capitale si chiudeva la pagina del Risorgimento, anche se mancavano ancora le cosiddette "terre irredente". Tra i vari problemi che bisognò affrontare, dall'analfabetismo al brigantaggio, dall'industrializzazione al diritto di voto, vi fu la "questione romana". Nonostante fossero stati riconosciuti al Pontefice speciali immunità, gli onori di Capo di Stato, una rendita annua e il controllo sul Vaticano e su Castel Gandolfo, Pio IX rifiutava di riconoscere lo stato italiano e impediva ai cattolici di partecipare alla vita civile del regno. Inoltre il Papa inflisse la scomunica a Casa Savoia, vale a dire sia a Vittorio Emanuele II sia ai suoi successori, e insieme con loro a chiunque partecipasse alla politica italiana. La scomunica venne ritirata solo in punto di morte del Sovrano.


A fine dicembre dell'anno 1877 Vittorio Emanuele II, amante della caccia ma delicato di polmoni, passò una notte all'addiaccio presso il lago nella sua tenuta di caccia laziale. L'umidità di quell'ambiente gli risultò fatale[19]. Infatti la sera del 5 gennaio 1878, dopo aver inviato un telegramma alla famiglia di Alfonso La Marmora, da poco scomparso, Vittorio Emanuele II avvertì i forti brividi della febbre. Il 7 gennaio venne divulgata la notizia che il Re aveva i giorni contati. Il 9 gennaio alle 14:30 il Re morì, assistito dai figli ma non da Rosa Vercellana (a cui fu impedito di recarsi al capezzale dai ministri del Regno).

Papa Pio IX, quando seppe della ormai imminente scomparsa del sovrano, volle inviare al Quirinale un ecclesiastico affinché, messi da parte i veti pontifici, accordasse al Re morente i sacramenti; fu invece il cappellano di corte che somministrò il viatico a Vittorio Emanuele, poiché si temeva che dietro la generosità di Pio IX si nascondessero degli scopi segreti.

Vittorio Emanuele II aveva espresso il desiderio che il suo feretro fosse tumulato in Piemonte, nella Basilica di Superga, ma Umberto I, accondiscendendo alle richieste del Comune di Roma, approvò che la salma rimanesse in città, nel Pantheon. Stendendo il proclama alla nazione, Umberto I (che adottò il numerale I invece del IV, che avrebbe dovuto mantenere secondo la numerazione sabauda), così si espresse:
« Il vostro primo Re è morto; il suo successore vi proverà che le Istituzioni non muoiono! »


Rosa Vercellana, contessa di Mirafiori e Fontanafredda, moglie morganatica del sovrano



La Tomba di Vittorio Emanuele II - Padre della Patria

Per celebrare il «Padre della Patria», il Comune di Roma bandì un progetto, dal 1880, su volontà di Umberto I di Savoia. Ciò che venne costruito fu una delle più ardite opere architettoniche d'Italia nell'Ottocento: per erigerlo, venne distrutta una parte della città, ancora medioevale, e venne abbattuta anche la torre di papa Paolo III. L'edificio doveva ricordare il tempio di Atena Nike, ad Atene, ma le forme architettoniche ardite e complesse fecero sorgere dubbi sulla buona riuscita dell'opera. Oggi, al suo interno, è presente la tomba del Milite Ignoto.


Progettata da Giuseppe Mengoni (che vi morì), la Galleria Vittorio Emanuele II collega la Piazza della Scala al Duomo di Milano, e venne realizzata mentre il Re era ancora in vita, a partire dal 1865. Il progetto iniziale intendeva emulare le grandi opere di architettura erette in quegli anni in Europa, creando una galleria borghese nel cuore della città.


Il Re non amava la vita di corte preferendo dedicarsi alla caccia e al gioco del biliardo che ai salotti mondani. Per la propria amante, e poi moglie, Rosa Vercellana, acquistò i terreni ora noti come Parco regionale La Mandria e vi fece realizzare la residenza nota come Appartamenti Reali di Borgo Castello. Per i figli avuti da lei, Vittoria e Emanuele di Mirafiori costruì all'interno della Mandria le cascine per l'allevamento dei cavalli "Vittoria" ed "Emanuella", quest'ultima ora nota come Cascina Rubbianetta.


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MessaggioInviato: Mer Giu 29, 2011 18:37    Oggetto: Rispondi citando




Altro personaggio di spicco del risorgimento italiano è stato Goffredo Mameli.Goffredo Mameli dei Mannelli, noto anche come Goffredo Mameli (Genova Voltri, 5 settembre 1827 – Roma, 6 luglio 1849) è stato un poeta, patriota e scrittore italiano nato in Regno di Sardegna.

Annoverato tra le figure più famose del Risorgimento italiano, morì a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della seconda Repubblica Romana. È l’autore delle parole dell’attuale inno nazionale italiano.

Nato nell'allora Regno di Sardegna, suo nonno era Giorgio Giovanni, della famiglia aristocratica sarda dei "Mameli" o "Mameli dei Mannelli", sembra originaria di Lanusei; Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, aveva percorso tutta la carriera nella marina iniziando da ufficiale, spostandosi per ricoprire la carica a Roma e parlamentare a Torino. La madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini. Giorgio Mameli, il padre, aveva comandato a Genova una squadra della flotta del Regno di Sardegna le cui capitali erano Cagliari e Torino.


Goffredo Mameli, istruito nelle Scuole Pie di Genova, docente nel collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di quasi 20 anni, delle parole del Canto degl'Italiani (1847), più noto in seguito come Inno di Mameli, adottato un secolo dopo come inno nazionale provvisorio della Repubblica Italiana nel 1946, musicato da Michele Novaro. Ma già ai tempi della scuola dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica, intitolati Il giovane crociato, L'ultimo canto, Le vergine e l'amante.



BUSTO DI MAMELI AL GIANICOLO



Mameli venne presto conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata degli Austriaci nel 1847.

Nel marzo 1848 organizzò una spedizione di trecento volontari per andare in aiuto a Nino Bixio durante l'insurrezione di Milano e, in virtù di questa impresa coronata da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi con il grado di capitano. In questo periodo compose un secondo canto patriottico, intitolato l'Inno militare musicato da Giuseppe Verdi.

Dopo l'armistizio, tornato a Genova riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando contemporaneamente direttore del giornale Diario del Popolo e senza dimenticare di pubblicizzare le sue idee irredentiste nei confronti dell'Austria.

La sua opera di patriota venne anche svolta: a Roma, nell'aiuto a Pellegrino Rossi e per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica romana di Mazzini, Armellini e Saffi; e in una campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e Toscana. Nel suo continuo vagabondaggio si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto La Marmora, quindi nuovamente a Roma nella lotta contro le truppe francesi venute in soccorso di Papa Pio IX (che nel frattempo aveva lasciato la città).




La lapide dedicata a Mameli alla Trinità dei Pellegrini.


La sua morte avvenne in seguito a delle circostanze accidentali: nella difesa della Villa del Vascello durante la breve Repubblica romana del 1849 fu ferito in maniera non particolarmente grave con la baionetta, da parte di un commilitone, alla gamba sinistra, che dovrà però essere amputata per la sopraggiunta cancrena dal medico ed amico Agostino Bertani. Morì per la sopravvenuta infezione il 6 luglio 1849, alle 7.30 del mattino, a soli 22 anni, presso l'ospizio della Trinità dei Pellegrini [2].
Lapide sulla tomba di Goffredo Mameli al sacrario dei caduti per Roma 1849-1870 a via Garibaldi, al Gianicolo

Fu sepolto al Verano, dove è ancor oggi visibile il suo monumento. Tuttavia le sue spoglie vennero traslate nel 1941 al Gianicolo, dove il fascismo belligerante aveva spostato e ricostruito il Mausoleo Ossario Garibaldino eretto inizialmente (nel 1879) lì presso, nel piazzale di San Pietro in Montorio



Tomba di Mameli al cimitero monumentale del Verano (Roma)




Lapide sulla tomba di Goffredo Mameli al sacrario dei caduti per Roma 1849-1870 a via Garibaldi, al Gianicolo.



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MessaggioInviato: Ven Lug 01, 2011 18:00    Oggetto: Rispondi citando


INNO D'ITALIA


Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
che schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!

Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popoli,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!

Uniamoci, uniamoci,
l'unione e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!

Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!

Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò, sì!


SPIEGAZIONE:


l'elmo di Scipio: L'Italia ha di nuovo sulla testa l'elmo di Scipio (Scipione l'Africano), il generale romano che nel 202 avanti Cristo sconfisse a Zama (attuale Algeria) il cartaginese Annibale. L'Italia è tornata a combattere.

Le porga la chioma: La Vittoria sarà di Roma, cioè dell'Italia. Nell'antica Roma alle schiave venivano tagliati i capelli. Così la Vittoria dovrà porgere la sua chioma perché sia tagliata, perché la Vittoria è schiava di Roma che sarà appunto vincitrice.

Coorte: nell'esercito romano le legioni (cioè l'esercito), era diviso in molte coorti. Stringiamci a coorte significa quindi restiamo uniti fra noi combattenti che siamo pronti a morire per il nostro ideale.

Calpesti: calpestati

Raccolgaci: la lingua di Mameli è la lingua poetica dell'Ottocento. Questo raccolgaci in italiano moderno sarebbe ci raccolga, un congiuntivo esortativo che assimila il pronome diretto. Il significato è: ci deve raccogliere, tenere insieme.

Una speme: altra parola letteraria e arcaica. Significa speranza. Non c'è però da stupirsi troppo se Mameli usa queste parole. Nella lingua delle canzonette di musica leggera intorno al 1950, queste parole si trovano ancora.

Fonderci insieme: negli anni di Goffredo Mameli l'Italia è ancora divisa in molti staterelli. Il testo dice che è l'ora di fondersi, di raggiungere l'unità nazionale.

Per Dio: doppia interpretazione possibile. Per Dio è un francesismo e quindi significa "da Dio": se siamo uniti da Dio, per volere di Dio, nessuno potrà mai vincerci.
Certo è però che in italiano "per Dio" può essere anche una imprecazione, una esclamazione piuttosto forte. Che avrà mai voluto intendere Goffredo Mameli? Siccome aveva Vent'anni ci piace pensare che abbia voluto lui stesso giocare sul doppio senso (in fondo i suoi rapporti con il Vaticano non erano buonissimi, tant'è vero che è morto proprio a Roma dove combatteva per la Repubblica)

Dovunque è Legnano: ogni città italiana è Legnano, il luogo dove nel 1176 i comuni lombardi sconfissero l'Imperatore tedesco Federico Barbarossa

Ferruccio: ogni uomo è come Francesco Ferrucci, l'uomo che nel 1530 difese Firenze dall'imperatore Carlo V.

Balilla: è il soprannome del bambino che con il lancio di una pietra nel 1746 diede inizio alla rivolta di Genova contro gli Austro-piemontesi

I Vespri: Nel 1282 i siciliani si ribellano ai francesi invasori una sera, all'ora del vespro. La rivolta si è poi chiamata la rivolta dei Vespri siciliani

Le spade vendute: i soldati mercenari si piegano come giunchi e l'aquila, simbolo dell'Austria, perde le penne

Il sangue polacco: L'Austria, alleata con la Russia (il cosacco), ha bevuto il sangue Polacco, ha diviso e smembrato la Polonia. Ma quel sangue bevuto avvelena il cuore degli oppressori



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MessaggioInviato: Ven Lug 01, 2011 18:11    Oggetto: Rispondi citando


Il Canto degli Italiani, conosciuto anche come Fratelli d'Italia dal suo verso introduttivo o come Inno di Mameli dal suo autore, è un canto risorgimentale scritto da Goffredo Mameli (testo) e Michele Novaro (musica), inno nazionale de facto della Repubblica Italiana.

NEL RISORGIMENTO
Nell'autunno del 1847, Goffredo Mameli, allora giovane studente e patriota, scrisse il testo de Il Canto degli Italiani. Dopo aver scartato l'idea di adattarlo a musiche già esistenti, nel settembre 1847 lo inviò a Torino nella casa del patriota Lorenzo Valerio, dove si trovava anche il maestro genovese Michele Novaro, il quale ne fu subito conquistato. Così il compositore ricordò quei momenti nell'aprile 1875 [1] per una commemorazione di Mameli:

"Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento (...), mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa di Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla mente il motivo strimpellato in casa di Valerio: lo scrissi su un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani; nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; questo fu l'origine dell'inno Fratelli d'Italia".

L'inno poté debuttare il 10 dicembre, quando sul piazzale del Santuario della Nostra Signora di Loreto a Oregina fu presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani in occasione del centenario della cacciata degli austriaci suonato dalla Filarmonica Sestrese C. Corradi G. Secondo, allora banda municipale di Sestri Ponente "Casimiro Corradi".

Era un momento di grande eccitazione: mancavano pochi mesi al celebre 1848, che era già nell'aria: era stata abolita una legge che vietava assembramenti di più di dieci persone, così oltre 30.000 persone ascoltarono l'inno e l'impararono; nel frattempo Nino Bixio sulle montagne organizzava i falò della notte dell'Appennino. Dopo pochi giorni, tutti conoscevano l'inno, che veniva cantato senza sosta in ogni manifestazione (più o meno pacifica). Durante le Cinque giornate di Milano, gli insorti lo intonavano a squarciagola: il Canto degli italiani era già diventato un simbolo del Risorgimento.

Gli inni patriottici come l'inno di Mameli (sicuramente il più importante) furono un importante strumento di propaganda degli ideali del Risorgimento e di incitamento all'insurrezione, che contribuì significativamente alla svolta storica che portò all'emanazione dello Statuto albertino, ed all'impegno del re nel rischioso progetto di riunificazione nazionale.

Quando l'inno si diffuse, le autorità cercarono di vietarlo, considerandolo eversivo (per via dell'ispirazione repubblicana e anti-monarchica del suo autore); visto il totale fallimento, tentarono di censurare almeno l'ultima parte, estremamente dura con gli Austriaci, al tempo ancora formalmente alleati, ma neppure in questo si ebbe successo.

Dopo la dichiarazione di guerra all'Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura del testo, così come abrogò l'articolo dello Statuto albertino secondo cui l'unica bandiera del regno doveva essere la coccarda azzurra, rinunciando agli inutili tentativi di reprimere l'uso del tricolore verde, bianco e rosso, anch'esso impostosi come simbolo patriottico dopo essere stato adottato clandestinamente nel 1831 come simbolo della Giovine Italia.

In seguito fu proprio intonando l'inno di Mameli che Garibaldi, con i "Mille", intraprese la conquista dell'Italia meridionale e la riunificazione nazionale.

Nel 1862 Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni, affidò proprio al Canto degli Italiani (e non alla Marcia Reale) il compito di simboleggiare l'Italia, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese.

Mameli era già morto, ma le parole del suo inno, che invocava un'Italia unita, erano più vive che mai. Anche l'ultima tappa di questo processo, la presa di Roma del 1870, fu accompagnata da cori che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri.

Anche più tardi, per tutta la fine dell'Ottocento e oltre, Fratelli d'Italia rimase molto popolare come in occasione della guerra libica del 1911-12, che lo vide ancora una volta il più importante rappresentante di una nutrita serie di canti patriottici vecchi e nuovi. Lo stesso accadde durante la prima guerra mondiale: l'irredentismo che la caratterizzava, l'obiettivo di completare la riunificazione, trovò facilmente ancora una volta un simbolo nel Canto degli italiani.

LE PRIME INCISIONI
Il documento sonoro più antico conosciuto del Canto degli Italiani (disco a 78 giri per grammofono, 17 cm di diametro) è datato 1901 e venne inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano sotto la direzione del Maestro Pio Nevi. Una delle prime registrazioni del Canto degli italiani ("Inno di Mameli", chiamato anche "Fratelli d'Italia") è quella che fece il 9 giugno 1915 il cantante lirico e di musica napoletana Giuseppe Godono. L'etichetta per cui il brano venne inciso è la Phonotype di Napoli. Una seconda antica incisione pervenuta ad oggi è quella della Banda del Grammofono, registrata a Londra per la casa discografica His Master's Voice (La Voce del Padrone) il 23 gennaio 1918[3].

SOTTO IL FASCISMO
Dopo la marcia su Roma, assunsero grande importanza, oltre all'inno ufficiale del regno che era sempre la Marcia Reale, i canti più prettamente fascisti, che pur non essendo degli inni ufficiali erano diffusi e pubblicizzati molto capillarmente. I canti risorgimentali furono comunque incoraggiati, tranne quelli "sovversivi" di stampo anarchico o socialista come l'Inno dei lavoratori o L'Internazionale, oltre a quelli di popoli stranieri non simpatizzanti col fascismo, come La Marsigliese. Anche gli altri canti furono rinvigoriti, e a esempio La canzone del Piave veniva cantato nell'anniversario della vittoria, il 4 novembre. Furono istituiti il Sindacato nazionale fascista dei musicisti, con ampie competenze a livello nazionale, da cui dipendeva il Fondo nazionale di assistenza, ed infine nacque la Corporazione dello spettacolo, posta sotto la giurisdizione del Ministro delle Corporazioni. Queste erano le principali strutture che governavano la vita musicale italiana. Il fascismo giunse a governare le attività di tutte le istituzioni musicali, dalle scuole ai conservatori, ai teatri, ai festival ed ai concorsi. La politica fascista non modificò i programmi di istruzione scolastica e professionale dei musicisti. Spesso l'inno di Mameli viene erroneamente indicato come l'inno nazionale della Repubblica Sociale Italiana. Tuttavia è documentata la mancanza di un inno nazionale ufficiale; nelle cerimonie veniva cantato l'inno di Mameli oppure Giovinezza.

NELL'ITALIA REPUBBLICANA
Nella seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 l'inno di Mameli e molti altri vecchi canti assieme a quelli nuovi dei partigiani risuonarono per tutta Italia (anche al Nord, dove erano trasmessi dalla radio) dando coraggio agli italiani. In questo periodo di transizione, sapendo che la monarchia sarebbe stata messa in discussione e che la Marcia Reale sarebbe stata perciò provocatoria, il governo adottò provvisoriamente come inno nazionale La canzone del Piave. Nel 1945, dopo la fine della guerra, a Londra Toscanini diresse l'esecuzione dell'Inno delle Nazioni, composto da Verdi nel 1862 e comprendente anche l'inno di Mameli, che vide così riconosciuta l'importanza che gli spettava.

Nel Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946, il Ministro della Guerra Cipriano Facchinetti comunicò che il giuramento delle Forze Armate sarebbe stato effettuato il 4 novembre e che, quale inno, si sarebbe adottato l'inno di Mameli. Dichiarò, altresì, che si sarebbe proposto uno schema di decreto per stabilire che provvisoriamente l'inno di Mameli sarebbe stato considerato l'inno nazionale. Tale schema di decreto, però, non vide mai la luce. . La Costituzione sancì l'uso del tricolore come bandiera nazionale, ma non stabilì quale sarebbe stato l'inno, e nemmeno il simbolo della Repubblica, che essendo fallito il primo concorso dell'ottobre 1946 fu scelto solo con il decreto legislativo del 5 maggio 1948 in seguito a un secondo concorso cui parteciparono 197 loghi di 96 artisti e specialisti, dei quali risultò vincitore Paolo Paschetto, col suo noto emblema.

Per molti decenni si è dibattuto a livello politico e parlamentare circa la necessità di rendere Fratelli d'Italia l'inno ufficiale della Repubblica Italiana, ma senza che si arrivasse mai all'approvazione di una legge o di una modifica costituzionale che sancisse lo stato di fatto riconosciuto peraltro anche in tutte le sedi istituzionali.

Nel 2006 è stato discusso nella Commissione affari costituzionali del Senato un disegno di legge che prevede l'adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell'inno Fratelli d'Italia.Lo stesso anno, con la nuova legislatura, è stato presentato al Senato un disegno di legge costituzionale che prevede la modifica dell'art.12 della Costituzione italiana con l'aggiunta del comma «L'inno della Repubblica è Fratelli d'Italia». Nel 2008, altre iniziative analoghe sono state adottate in sede parlamentare peraltro senza mai portare a termine l'ufficializzazione nella Costituzione dell'inno che attualmente perciò resta provvisorio e adottato ad interim.


CERIMONIALE
Secondo il cerimoniale ufficiale, le «regole scritte e non scritte» prevedono che normalmente dell'inno di Mameli sia eseguita solo la prima strofa senza l'introduzione strumentale, sostituita con massimi onori militari tributabili (ripetizione della frase musicale degli onori per tre volte) a simboleggiare l'inno come uno dei più sacri simboli della repubblica italiana; durante l'esecuzione i soldati devono rimanere fermi presentando le armi, gli ufficiali stare sull'attenti e i civili, se vogliono, assumere una posizione di attenti. Dal 1970 inoltre ogni esecuzione dell'inno nazionale dovrebbe essere accompagnata da quella dell'inno europeo, l'Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven.


Nei mondiali di calcio dal 1974 al 1986, l'inno veniva suonato a partire dall'introduzione strumentale e interrotto immediatamente prima del coro. Attualmente è suonato l'intero inno.


Lo spartito dell'inno è di proprietà della casa editrice Sonzogno. Nel 2010, in seguito al clamore suscitato da una lettera inviata dal presidente del Consiglio comunale di Messina al Presidente della Repubblica Italiana, la SIAE ha deciso di non riscuoterne più i diritti d'autore

CRITICHE

Fratelli d'Italia è stato spesso criticato, e spesso alcuni ne hanno ventilato la sostituzione, specie all'inizio degli anni novanta.

Le critiche si appuntano in genere sulla bassa qualità musicale dell'inno, rilevandone un carattere di "marcetta" o "canzone da cortile" di poche pretese; si obietta tuttavia che la funzione e gli scopi degli inni patriottici, popolari e di lotta mal si conciliano, in genere, con un'elevata qualità artistica della melodia[2]; inoltre non tutti concordano sulla mediocrità di quella scritta da Novaro. Molti infatti ne considerano tutt'altro che brutta la musica; il compositore Roman Vlad, già sovrintendente della Scala, ad un giornalista che gli aveva sottoposto l'idea di rendere l'inno più orecchiabile per accrescerne la popolarità presso il pubblico giovanile rispose che «no, questa è una proposta assurda. L'inno è così com'è, e non si può alterare. E poi non è vero che sia poco orecchiabile o che sia così brutto come si dice». Molti altri affermano invece che è vero che la melodia non sia sublime e sicuramente inferiore a quella dell'inno tedesco di Haydn e al Va', pensiero, il candidato più frequente alla sostituzione, e che però ciò non basta a fare di quest'ultimo un'alternativa valida.[16] È vero che ai tempi di Verdi il dramma degli ebrei esiliati fu interpretato come una chiara allusione alla condizione di Milano, in mano degli Austriaci, ma ciò non toglie che non contiene nessun riferimento specifico all'Italia o alla sua storia – è il canto di un popolo diverso e per di più sconfitto –, perciò ci si chiede quanto possa essere plausibile l'idea di farne l'inno nazionale. Invece il testo di Mameli, che è costituito da 5 strofe e un ritornello, presenta i concetti principali cui si ispirò il Risorgimento, legati alla cultura romantica del tempo, concetti espressi anche da Manzoni nell'ode "Marzo 1821".

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MessaggioInviato: Ven Lug 01, 2011 18:14    Oggetto: Rispondi citando


La Marcia Reale d'Ordinanza, preceduta dalla Fanfara Reale, è stata l'inno del Regno di Sardegna prima e del Regno d'Italia poi, rappresentando così l'inno nazionale italiano fino all'avvento della Repubblica. Fu composta nel 1831 da Giuseppe Gabetti su incarico di Carlo Alberto di Savoia.

TESTO

Il testo della Marcia Reale fu perso molto probabilmente durante la prima guerra mondiale; tuttavia, molti musicisti cercarono di riscriverlo, tentando di adattarlo alla musica. Probabilmente una delle più celebri versioni cantate fu quella eseguita dal Coro e Orchestra Sinfonica dell'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche.

Dal 1922 al 1943, ad ogni esecuzione pubblica della Marcia Reale, seguiva Giovinezza, l'inno ufficiale del Partito Nazionale Fascista.


FANFARA REALE

Evviva il Re! Evviva il Re! Evviva il Re!
Chinate, oh reggimenti, le Bandiere al nostro Re
la gloria e la fortuna dell'Italia con Lui è.
Chinate, oh reggimenti, le Bandiere al nostro Re
bei fanti di Savoia gridate Evviva il Re!

MARCIA REALE

Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Le trombe liete squillano
Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Con esse i canti echeggiano
rullano i tamburi e le trombe squillano, squillano
cantici di gloria eleviamo con gioia e fervor
Tutta l'Italia spera in te
l'Italia crede in te
segnal di nostra stirpe e libertà, e libertà!


Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Le trombe liete squillano
Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!
Con esse i canti echeggiano
rullano i tamburi e le trombe squillano, squillano
cantici di gloria eleviamo con gioia e fervor
Tutta l'Italia spera in te
l'Italia crede in te
segnal di nostra stirpe e libertà, e libertà!



Quando i nemici agognino
i nostri campi floridi
dove gli eroi pugnarono
nella trascorsa età.
Finché duri l'amor di Patria fervido
finché regni la nostra civiltà.


L'Alpe d'Italia libera
del bel parlare angelico
piede d'odiato barbaro
giammai calpesterà
finché duri l'amor di Patria fervido
finché regni la nostra civiltà.


Come falange unanime
i figli della Patria
si copriran di gloria
gridando viva il Re.
Viva il Re.

_________________
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nenepdl



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MessaggioInviato: Lun Lug 04, 2011 12:26    Oggetto: Rispondi citando


MI permetto di inserire questo piccolo articolo...anche durante la GMG a Madrid, faremo sentire il nostro essere italiani!!!
Italiano, batti le mani....Italiano batti le mani!

“Giornata tricolore”

Il 17 agosto, alle ore 16, presso la chiesa di San Juan de la Cruz a Madrid, si terrà un incontro di ringraziamento verso le diocesi di Madrid e la Conferenza Episcopale Spagnola alla presenza del Card. Bagnasco, Presidente della CEI e di tutti i vescovi italiani. In quella occasione verrà consegnata al Cardinale Spagnolo Rouco Varela ed ai rappresentanti della diocesi di Madrid e della Conferenza episcopale spagnola la statua della Madonna di Loreto ed una riproduzione della Croce di San Damiano.

Sono invitati - in particolare i giovani nati nel 1993 - 4 giovani italiani per ogni diocesi e 3 giovani per ogni aggregazione laicale e altre realtà ecclesiali. Aver scelto i nati nel 1993, cioè coloro che hanno già compiuto o compiranno i 18 anni durante il 2011, deriva dal fatto che in occasione del 150° dell’Unità d’Italia si vuole evidenziare la responsabilità socio politica come cittadini italiani dei giovani maggiorenni.

Una mostra artistico-letteraria si terrà presso la Cancelleria dell’Ambasciata Italiana e saranno esposte le opere vincitrici del concorso, ma anche delle opere “fuori concorso” per quelle Regioni che non sono riuscite a coprire le quattro aree tematiche. Tutte le opere saranno, poi, inserite in un catalogo.

La sera del 17 agosto, inoltre, si esibiranno nella piazze di Madrid alcuni gruppi italiani.
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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mer Lug 20, 2011 10:31    Oggetto: Rispondi citando


Irene grazie per aver postato questa notizia,un bacio.
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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mer Lug 20, 2011 16:29    Oggetto: Rispondi citando


La bandiera Italiana


Nella Costituzione Repubblicana del 1947, all’art. 12, si legge: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”.
Il significato dei tre colori è:

Verde = (1794: Zamboni - De Rolandis / Colore della speranza di un'Italia libera e unita)
Bianco = (1794: Zamboni - De Rolandis / Colore di Bologna)
Rosso = (1794: Zamboni - De Rolandis / Colore di Bologna)

Il significato dei tre colori della nostra Bandiera Nazionale

Dal discorso di Giosuè Carducci, tenuto il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia per celebrare il 1° centenario della nascita del Tricolore

«Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all' Etna; le nevi delle alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani, E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l' anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi, E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch' ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà»,





La Bandiera degli italiani

I colori della bandiera Nazionale Italiana furono stabiliti dal Senato di Bologna, con un documento datato 18 ottobre 1796, in cui si legge: "Bandiera coi colori Nazionali - Richiesto quali siano i colori Nazionali per formarne una bandiera, si è risposto il Verde il Bianco ed il Rosso." A Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, i deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, fu fatta "mozione che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". Il congresso della Repubblica Cispadana convocato a Modena il 21 gennaio del 1797 confermando le deliberazioni di precedenti adunanze decretò vessillo di stato il tricolore per virtù d'uomini e di tempi fatto simbolo dell'unità indissolubile della nazione. Ma perché proprio questi tre colori? Nell'Italia del 1796, attraversata dalle vittoriose armate napoleoniche, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano soppiantato gli antichi Stati assoluti adottarono quasi tutte, con varianti di colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente ispirate al modello francese del 1789. In realtá i primi a ideare la bandiera nazionale erano stati due patrioti e studenti studenti dell'Universitá di Bologna, Luigi Zamboni, natio del capoluogo emiliano, e Giambattista De Rolandis, originario di Castell'Alfero (Asti), che nell'autunno del 1794 unirono il bianco e il rosso delle rispettive cittá al verde, colore della speranza. Si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti e catturati dalla polizia pontificia, insieme ad altri cittadini. Avviato il processo, il 19 agosto 1795, Luigi Zamboni fu trovato morto nella cella denominata "Inferno" dove era rinchiuso insieme con due criminali, che lo avrebbero strangolato per ordine espresso della polizia. L'altro studente Giovanni Battista De Rolandis fu condannato a morte ed impiccato il 23 aprile 1796. Anche i reparti militari "italiani", costituiti all'epoca per affiancare l'esercito di Bonaparte, ebbero stendardi che riproponevano la medesima foggia. In particolare, i vessilli reggimentali della Legione Lombarda presentavano, appunto, i colori verde, bianco e rosso, fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione: il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Bologna (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1796, le uniformi della Guardia civica Bolognese. Gli stessi colori, poi, furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, e fu probabilmente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera. Al centro della fascia bianca, lo stemma della Repubblica, un turcasso contenente quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi.

L'EPOCA NAPOLEONICA


1796 Vessillo militare - non di Stato - dei Cacciatori a cavallo della Legione Lombarda
(Museo del Risorgimento di Milano)




Il Vessillo militare - non di Stato - sventolò alla testa delle formazioni dei Patrioti italiani, che si arruolarono volontariamente nell'Armata d'Italia per combattere contro l'Austria. Napoleone, infatti, entrato da vincitore a Milano il 10 maggio 1796, promuove l’organizzazione della "Legione Lombarda", forte di 3.471 uomini, nella quale ognuna delle sette Coorti "avrà il suo Stendardo tricolorato Nazionale Lombardo distinto per numero, ed ornato degl'Emblemi della Libertà".

Il 6 novembre 1796, nel corso di una solenne cerimonia alle ore cinque pomeridiane sulla piazza del Duomo, come riportava il Corriere Milanese del giorno dopo, la prima coorte della Legione Lombarda ricevette la bandiera. Nei giorni seguenti, senza particolari cerimonie pubbliche, anche le restanti cinque coorti ricevettero la loro bandiera. Queste sei bandiere, quasi incredibilmente sopravvissute a tanti sconvolgimenti militari e politici, sono ora custodite nell'Hures Museum di Vienna le prime cinque e nel Musée de l'Armeé all'Hotel des Invalides a Parigi la sesta. Nel Museo del Risorgimento di Milano è invece custodita la bandiera della compagnia cacciatori a cavallo della Legione, bandiera consegnata al reparto probabilmente in epoca successiva. Queste bandiere non sono identiche, differenziano per piccoli particolari.

Le prime vere bandiere tricolore, ossia quelle successive alla Coccarda della sollevazione bolognese del 1794, vessilli consegnati da Napoleone:
18 maggio alla Guardia Nazionale (subito dopo Cherasco);
9 ottobre a Milano per la Legione Italiana;
6 novembre a Milano alla Legione Lombarda.
Queste bandiere a striscie verticali, verde bianche rosse fanno comprendere meglio la frase scritta da Compagnoni a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 e venti giorni dopo a Modena, "affinchè si renda universale lo stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori ... " ecc . Don Compagnoni non poteva parlare di decreto, o di costituzione, perchè i vessilli esistevano già da più di 7 mesi. Ed il "si renda universale" (ripetuto a Modena tal quale) va interpretato come segno di entusiasmo, e come sottolineava il De Sanctis attingendo alla volgata, come segno di giubilo: "va gridato in tutto il mondo".



Bandiera della Guardia Civica Modenese della Repubblica Cispadana
(dal 7 gennaio 1797 al 29 giugno 1797)



Bandiera della Repubblica Cispadana di Reggio Emilia
(Ricostruzione storica)



L'arma della Repubblica Cispadana di Reggio Emilia
(Ricostruzione storica)





In data 26 aprile 1797 il vecchio Senato bolognese si autoconvocò per rassegnare il proprio mandato nelle mani della nuova assemblea. Fu definitivamente soppresso il 31 maggio 1797. L'unica moneta di cui si abbia notizia è la "Doppia o da 20 lire" coniata dalla Zecca di Bologna (1797), molto discussa per la non corresponsione del peso della moneta con alcun valore monetale del periodo o della monetazione di Bologna.

Nella seduta del 7 gennaio 1797 i Delegati della Repubblica Cispadana, accogliendo una mozione di Giuseppe Compagnoni, decretano "che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso". Nasce così il Tricolore come Vessillo Nazionale, La prima Bandiera Tricolore Cispadana ha i colori disposti in tre strisce orizzontali: il Rosso in alto, il Bianco in mezzo, il Verde in basso. Al centro è dipinto il Turcasso o Faretra con quattro frecce, a simboleggiare l'Unione delle quattro popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Le lettere “R” e “C”, poste ai lati sono le iniziali di "Repubblica Cispadana". La ricostruzione storica del Primo Tricolore è di Ugo Bellocchi.



Sala detta del Tricolore - Palazzo Comunale, Reggio Emilia

Costruita su progetto dell'Architetto Lodovico Bolognini tra il 1772 e il 1787, la Sala era originariamente destinata a Sede dell'Archivio Generale della Municipalità. Il 27 dicembre 1796 ospitò il Congresso dei Deputati di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara che, dopo avere proclamato la Repubblica Cispadana, il 7 gennaio 1797 ne adottarono come Vessillo il Tricolore Verde, Bianco e Rosso. Oggi è sede del Consiglio Comunale e delle più importanti Manifestazioni Civiche.



La prima campagna d'Italia, che Napoleone conduce tra il 1796 e il 1799, sgretola l'antico sistema di Stati in cui era divisa la penisola. Al loro posto sorgono numerose repubbliche giacobine, di chiara impronta democratica: la Repubblica Ligure, la Repubblica Romana, la Repubblica Partenopea, la Repubblica Anconitana. La maggior parte non sopravvisse alla controffensiva austro-russa del 1799, altre confluirono, dopo la seconda campagna d'Italia, nel Regno Italico, che sarebbe durato fino al 1814. Tuttavia, esse rappresentano la prima espressione di quegli ideali di indipendenza che alimentarono il nostro Risorgimento. E fu proprio in quegli anni che la bandiera venne avvertita non più come segno dinastico o militare, ma come simbolo del popolo, delle libertà conquistate e, dunque, della nazione stessa.




1798
Stendardo del II Reggimento D'Usseri della Repubblica Cisalpina (1800)



Il Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina, nella seduta dell’11 maggio 1798, decreta che "La Bandiera della Nazione Cisalpina è formata di tre bande parallele all'asta, la prossima all'asta verde, la successiva bianca, la terza rossa. L'asta è similmente tricolorata a spirale, colla punta bianca". Tale risoluzione venne molto spesso disattesa: per almeno quattro decenni, infatti, le bandiere con il tricolore saranno composte con modalità variabili nell'accostamento e nella disposizione, sino alla definitiva codifica del 1848.





Repubblica Cisalpina
1797-1802

Bandiera di impiego generale dall'11 maggio 1798 al 20 agosto 1802. Nel maggio del 1797 Napoleone stacca le provincie di Modena e Reggio dalla Repubblica Cispadana alla quale annette le Romagne e le destina alla Repubblica Transpadana che dà alle sue coorti un Tricolore col berretto frigio e l’archipendolo; il 9 luglio 1797 le riunifica nella Repubblica Cisalpina. L’11 maggio del 1798 il Consiglio Repubblicano ufficializza il Tricolore verticale di forma quadrata. Nel gennaio 1802 il nome dello stato cambiò in Repubblica Italiana e il 20 agosto dello stesso anno anche il tricolore fu sostituito.




Bandiera nazionale e di stato a terra dal 20 agosto 1802 al marzo 1805. Il tricolore cisalpino, forse ritenuto troppo simile a quello francese, o troppo rivoluzionario, fu riarrangiato nel 1802 in un nuovo disegno.




Il drappo era quadrato. Invece la versione marittima, decretata ufficialmente, come la versione di terra, il 30 agosto 1802 ma già descritta in un documento del 17 luglio, aveva una forma molto allungata (prop. 3/Cool. Curiosamente, le insolite proporzioni del drappo furono scelte perché stimate simili a quelle delle navi che lo inalberavano.

Repubblica Italiana
20 agosto 1802-1805

Il 20 agosto 1802, su proposta del Ministro della Guerra Trivulzi, il Governo della Repubblica approva il cambiamento della "Bandiera di terra e di mare" dello Stato. La forma del nuovo vessillo sarà, "un quadrato a fondo rosso, in cui è inserito un rombo a fondo bianco, contenente un altro quadrato a fondo verde". La decisione adottata resterà in vigore, fino al 1814, anche dopo la proclamazione del Regno d’ Italia, con lievi varianti riconosciute ai drappi di taluni reparti militari o adottate in circostanze particolari.




Regno Italico
1805-1814

Dal marzo/aprile 1805 alla primavera del 1814 bandiera del Regno Italico a terra e in mare. Quando la Repubblica Italiana diventò Regno Italico, il disegno della bandiera non fu cambiato, ma venne aggiunta al centro l'aquila d'oro napoleanica recante sul petto lo stemma di stato dall'araldica incerta, caratteristica di quel periodo.






1 bandiera della guardia nazionale milanese (20-xi-1796)
2 prima bandiera tricolore napoleonica - (ott, 1796)
3 bandiera granatieri delle guardia di napoleone (1802)
4 bandiera del presidente napoleone (1802)
5 bandiera reggimentale del primo Regno d'Italia (1861)
6 bandiera ufficiale del regno di Sardegna (1848) poi del Regno d'Italia
7 bandiera del governo siciliano provvisorio (1848)
8 bandiera delle 5 giornate di Milano (1848)
9 bandiera della repubblica di Venezia (con San Marco) (1848-1849)

La prima con le caratteristiche della n. 2 (la bandiera disposta a bande verticali verde, bianco e rosso) fu proposta dal sacerdote Giuseppe Compagnoni, deputato di Ferrara, ed ebbe il suo battesimo il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia in eta' napoleonica con la Repubblica cispadana, formata da Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
Nata a bande orizzontali aveva una feretra colma di frecce con fornde versi attorno. le bande divennero verticali durante la Repubblica Cisalpina a partire dall'11 maggio 1798.
Nel 1802 (la n. 3) i colori erano a figure geometriche concentriche (quadrato, rombo, quadrato).
Fu poi Venezia, nella famosa rivoluzione di manin, a riprendere la n. 2

Dopo il Congresso di Vienna e la restaurazione dei regimi reazionari, il tricolore compare sporadicamente come simbolo rivoluzionario della Carboneria a Napoli e a Torino, nel 1821 e nel Cilento nel 1828.

Fu Mazzini, fondatore della Giovine Italia (1831) ad adottare il tricolore come simbolo dell’Italia futura: sopra di esso vi erano scritte che compendiavano il credo mazziniano: da una parte, “Libertà’ - Uguaglianza - Umanità’“, dall’altra “Unita’ - Indipendenza”.

Il tricolore sventolo’ per la prima volta nelle strade in una manifestazione a Genova il 10 dicembre del 1847, nell'anniversario dell’insurrezione popolare del 1746, ma con un chiaro significato patriottico ed antiaustriaco; vi parteciparono oltre 30.000 patrioti provenienti da ogni regione italiana.

Nella festa genovese, fra stendardi inneggianti a Balilla e ad altri popolani genovesi protagonisti della sommossa, spiccavano due tricolori. Uno lo issava Goffredo Mameli, l’altro, Luigi Paris. Il tricolore inizia a diventare l’emblema di una nazione e di un popolo che vuole riunirsi in una Repubblica dalle Alpi alla Sicilia.

Il 23 marzo del 1848 al momento di varcare il Ticino ed intraprendere la guerra all’Austria, Carlo Alberto adotta il tricolore come bandiera del proprio esercito, mettendo nella banda bianca lo stemma dei Savoia. Diventato simbolo di liberta’ fu adottato negli Stati che si erano ribellati alle antiche dinastie, e fu l’emblema delle ultime repubbliche, la Romana e la Veneta, che resistettero alla restaurazione dei vecchi governi .

Dopo 1849 divenne simbolo del Regno di Sardegna e dal 1861 del Regno d’Italia.

Pur mancando un'esplicita sanzione normativa, il Tricolore è ormai diventata la bandiera nazionale italiana: la materia riguardante la bandiera verrà, infatti, organicamente disciplinata dopo la Grande Guerra con il regio decreto-legge 24 settembre 1923, n. 2072, convertito nella legge 24 dicembre 1923, n. 2264.

Nel 1947 il Tricolore, ovviamente privo del simbolo della dinastia sabauda, viene introdotto nella costituzione repubblicana del 1947, all’art. 12, si legge: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”



IL RISORGIMENTO




Dopo la caduta di Napoleone, e l'abbattimento del Regno Italico, il Tricolore riapparve ancora come vessillo di italianità nei moti del 1821 in Piemonte, nel 1828 in Cilento, nel 1831 ancora in Piemonte, nel 1832-33 a Napoli, nel 1837 a Catania ed a Siracusa, erigendosi ovunque a simbolo di Unità Italiana. Con questa interpretazione venne adottato dai movimenti carbonari e dalla "Giovane Italia" di Giuseppe Mazzini. Nei primi mesi del 1848 le donne di Reggio Emilia offrirono un vessillo tricolore da loro lavorato a maglia agli studenti del battaglione toscano che combattè a Curtatone ed a Montanara e l' 11 aprile dello stesso 1848, data fondamentale, Carlo Alberto dal quartier generale di Volta Mantovana ammainava la bandiera sabauda per innalzare il Tricolore, riconoscendo in esso la Bandiera Nazionale Italiana.

La Bandiera nazionale fu Decretata come bandiera mercantile il 15 aprile 1848, già del Regno di Sardegna dal 1848, diventata del Regno d'Italia il 17 marzo 1861. Fu ammainata il 19 giugno 1946, quando l'Italia era già una repubblica. Lo scudo dei Savoia rappresentava l'unità nazionale sotto la casa regnante. Il Tricolore adottato il 27 Marzo 1848 (rimarrà in vigore fino al Giugno del 1946). Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia rompe gli indugi e dichiara guerra all'Austria: ha inizio la prima guerra di indipendenza. Lo stesso Re ordina che "Le truppe che entreranno sul suolo lombardo inalberino ed assumano la bandiera italiana verde, bianca e rossa, con in mezzo lo scudo di Savoia (croce bianca in campo rosso)". L'incarico di disegnare il modello della nuova bandiera fu affidato a Bigotti, segretario del Ministro dell'Interno.



Bandiera del Regno d'Italia (dal Bellocchi)
Regno di Sardegna (1848-1861) e Regno d'Italia (1861-1946) 1861 Tricolore del Regno d'Italia


Il 18 febbraio 1861 si riunisce a Torino il primo Parlamento italiano e il 17 marzo viene proclamata la costituzione del Regno d'Italia. Il nuovo Stato adotta tacitamente come bandiera nazionale quella del Regno di Sardegna: il tricolore con lo stemma dei Savoia, orlato d'azzurro e sormontato dalla corona reale. Per l'impiego come bandiera di stato e della marina da guerra lo scudo dei Savoia doveva essere sormontato dallo corona reale.




Torino 18 Febbraio 1861 Apertura del Primo Parlamento Parlamento italiano - Dipinto di T. van Elven


Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato, quale emblema di libertà, nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa. Dovunque in Italia, il bianco, il rosso e il verde esprimono una comune speranza, che accende gli entusiasmi e ispira i poeti: "Raccolgaci un'unica bandiera, una speme", scrive, nel 1847, Goffredo Mameli nel suo Canto degli Italiani. E quando si dischiuse la stagione del '48 e della concessione delle Costituzioni, quella bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, da Milano a Venezia, da Roma a Palermo. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto rivolge alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza e che termina con queste parole:"(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana." Allo stemma dinastico fu aggiunta una bordatura di azzurro, per evitare che la croce e il campo dello scudo si confondessero con il bianco e il rosso delle bande del vessillo






Regno costituzionale delle Due Sicilie
Adottato il 03 Aprile 1848 da Ferdinando II di Borbone
1848-1849



Governo provvisorio della Sicilia
1848-1849



Repubblica Veneta
dal 27 Marzo 1848 al 24 Agosto 1849



Granducato costituzionale di Toscana
1848-1849



1849 Bandiera della Repubblica Romana (Museo del Risorgimento di Milano)




Regno delle Due Sicilie



Repubblica Sociale Italiana
23 Settembre 1943 - Aprile 1945
La bandiera di combattimento delle Forze Armate della "Repubblica Sociale Italiana" entrata in vigore il 28 Gennaio 1944.



Repubblica Italiana
2 giugno 1946
Il Tricolore italiano attualmente in vigore, approvato dall'Assemblea Costituente il 24 Marzo 1947 e descritto nell'art. 12 della Costituzione.



Bandiera dei Corpi d'Armata dell'Esercito e dell'Aeronautica e dei reparti a terra della Marina definita con D.L. n°1252 del 25 Ottobre 1947. La Bandiera è pulita e si compone di una freccia d'ottone dorato, un'asta rivestita di velluto verde ed ornata con bullette d'ottone, un drappo quadrato di cm.99 X 99 diviso verticalmente in tre parti uguali, una fascia formante due strisce di colore turchino azzurro ed un cordone argentato. Dal 5 Ottobre 2000 bandiera anche dell'Arma dei Carabinieri in quanto decretata IV Corpo d'Armata d'Italia con DL n° 297.


Il 14 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza. Ma la mancanza di una apposita legge al riguardo - emanata soltanto per gli stendardi militari - portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall'originaria, spesso addirittura arbitrarie. Soltanto nel 1923 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale. Durante il secondo conflitto mondiale dal 1943 al 1945 la RSI adottò una propria bandiera. Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. E perfino dall'arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l'emozione di quel momento. PRESIDENTE [Ruini] - Pongo ai voti la nuova formula proposta dalla Commissione: "La bandiera della repubblica è il tricolore italiano Cisalpino: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni". (E' approvata. L'Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi. Vivissimi, generali, prolungati applausi.)
Prima dell'Inno di Mameli, composto nel 1847, la musica che rappresentava il nostro Paese era la Marcia reale d'odinanza di Giuseppe Gabetti, un inno che rimase fino alla caduta della monarchia, nel 1946. tra il 1946 ed il 1947 lo sostituirono La leggenda del Piave e poi Fratelli d'Italia.

Nel 1947, furono definite anche le bandiere della flotta della Marina Militare e della Marina Mercantile:



La bandiera della Marina Militare Italiana istituita il 9 Novembre 1947 con Decreto Legislativo n° 1305, con gli stemmi delle Repubbliche marinare di Venezia, Pisa, Genova ed Amalfi, sormontate dalla corona turrita e rostrata, per distinguerla sul mare da quella messicana.



Marina Mercantile
1947


Bandiera della Marina Mercantile recante al centro della banda bianca l'emblema araldico delle quattro Repubbliche Marinare senza corona turrita e rostrata per distinguerla da quella militare e da quella messicana (D.L. n° 1305, 1947).
La Bandiera mercantile decretata il 9 novembre 1947 e in vigore dal 30 successivo. Lo stemma con le armi inquartate delle repubbliche marinare, Venezia, Genova, Amalfi e Pisa, fu aggiunto alla bandiera nazionale per differenziarla in mare da quella messicana, che all'epoca era pulita. Analoga la bandiera della marina militare, ma lo stemma è coronato e il leone di Venezia tiene il libro chiuso sotto la zampa, alza la spada e differisce per alcuni altri particolari.
Per le navi da guerra, infatti, l'emblema araldico delle quattro repubbliche marinare è sormontato dalla corona turrita e rostrata con il leone di San Marco, armato di una spada, che poggia la zampa anteriore sinistra sul Vangelo chiuso. Nella bandiera della marina mercantile la corona non è presente ed il leone, rappresentato nel quarto della repubblica veneziana, è senza spada ed il Vangelo è aperto con la scritta “pax tibi Marce evangelista meus”.




Nuovo stendardo del Presidente della Repubblica Italiana In vigore da 4 novembre 2000 D.P.R. 9 ottobre 2000 (Gazz. Uff. 14 ottobre 2000, n. 241)


DPR n. 90/2010 - artt. 289-291- TU reg. ordinamento militare
18-6-2010 Supplemento ordinario n. 131/L alla GAZZETTA UFFICIALE Serie generale - n . 140

Art. 289 Bandiera e distintivi

1. Le unità e i mezzi navali iscritti nel Registro inalberano la bandiera nazionale costituita dal tricolore italiano, caricato al centro della fascia bianca dell'emblema dello Stato, di cui al decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 535, conforme al modello risultante dall'Allegato A di cui all'art. 291 .
2. Il naviglio di cui al comma 1 può essere contraddistinto da eventuali distintivi speciali previsti dall'ordinamento delle amministrazioni di appartenenza.
3. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, con modalità da stabilirsi con decreti delle amministrazioni interessate, anche al naviglio in dotazione alle Forze di polizia non iscritto nel registro.

Art. 290 Norma di rinvio

1. Per quanto non espressamente disciplinato nel presente titolo, si rinvia alle norme del codice della navigazione e al relativo regolamento di esecuzione, nonché alle altre leggi speciali di settore.










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"LE MANI CHE AIUTANO SONO PIù SACRE DELLE BOCCHE CHE PREGANO"
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cinzia76



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MessaggioInviato: Lun Ago 01, 2011 23:36    Oggetto: Rispondi citando


Teso' sei bravissima a postare notizie cosi' importanti e storiche nei minimi dettagli Very Happy !Grazie teso' bacio Wink !
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genziana



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MessaggioInviato: Gio Ago 11, 2011 21:29    Oggetto: 1861 - 2011 evviva! Centocinquantenario dell'UNITA' d'ITALIA Rispondi citando


Posso invitare chi sarà a portata di televisore a Ferragosto, per il tradizionale Concerto in diretta? Quest'anno saremo ospiti della prima Capitale dell'ITALIA UNITA, TORINO: appuntamento su RAI TRE o sul sommo della collina di Superga intorno alla Basilica.

Felice Centocinquantenario a tutti gli Italiani! Solare weekend in famiglia e col Forum!!

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genziana



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MessaggioInviato: Ven Set 09, 2011 11:12    Oggetto: DANTE Teatro della Divina Commedia LEUCIANA FESTIVAL 13/9/11 Rispondi citando






        Martedì 13 SETTEMBRE 2011 - 20.30 - CASERTA

        Belvedere Reale di San Leucio -. Teatro dei Serici



        DANTE - SYMPHONIE DANTEXPERIENCE
        ' IL TEATRO DELLA DIVINA COMMEDIA '



    FRANZ LISZT PIANO DUO [Vittorio Bresciani & Francesco Nicolosi] .e
    Coro Lirico Italiano|Istituzione Corale Romana diretti da Renzo Renzi


        ALESSANDRO PREZIOSI, Voce recitante

          13° LEUCIANA FESTIVAL - 2011



          ............


        Ingresso a pagamento - Informazioni : Botteghino Teatro Comunale Di Caserta
        Via Mazzini 71, tel. 0823444051 da lunedì a sabato 10.00/13.00-17.00/20.00

        www.comune.caserta.it/belvedere/storia/index.html . www.leucianafestival.com

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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mer Set 21, 2011 17:49    Oggetto: Rispondi citando







Forum internazionale alla Camera dei Deputati sulla Ricerca e la Cura del dolore 28 Settembre 2011
Forum Internazionale sulla ricerca e la cura del dolore. 150 anni dell’Unità d’Italia. Emigrazione: dalle braccia ai cervelli. Contributo del genio e del cuore italiano al progresso scientifico, economico e sociale della Comunità Internazionale.



Forum Internazionale sulla ricerca e la cura del dolore.
Dall’emigrazione delle braccia a quella dei cervelli. Il contributo del genio e del cuore italiano al progresso scientifico, economico e sociale in un Forum, promosso da Fondazione ISAL, che si terrà alla Camera dei Deputati mercoledì 28 settembre, dalle 9.00 alle 18.30 e che registra, tra invitati e moderatori, nomi illustri come quello degli on. Ferruccio Fazio e Livia Turco.

Promosso ed organizzato da Fondazione ISAL, l’ente che dal 1993 sostiene con determinazione e capillarità la conoscenza, la ricerca e la formazione nell'ambito della terapia del dolore, da Federdolore e da O.N.P.S., l’Osservatorio Nazionale Permanente sulla Sicurezza, il Forum intende aprire una riflessione sulla ricerca, che è la precondizione affinché si possa guardare alle conquiste di domani con serenità e coscienza, e sul diritto alla non sofferenza nel rispetto della dignità, dell’autonomia e della qualità della vita.

Temi pressanti e quanto mai contingenti, visto lo scenario socio-politico in cui ci muoviamo attualmente, che però in questo contesto si è scelto di affrontare attraverso un punto di vista che appare sempre di più come una sfida di civiltà, rappresentato da quel dolore spesso subito in silenzio.
Quel dolore che oggi, grazie anche all’approvazione della legge n. 38 del 15 marzo 2010 che garantisce l’accesso alle cure palliative, sappiamo essere una vera e propria malattia e che, come tale, è possibile riconoscere e curare.

Nasce da questa precisa volontà l’azione che da anni svolge la Fondazione ISAL. Un lavoro quotidiano di ricerca, di formazione e di preparazione degli specialisti in terapia antalgica.
Gli stessi, questi ultimi, che torneranno dalle loro destinazioni all’estero per condividere durante il Forum le loro esperienze vissute, spesso forzatamente, lontano dall’Italia. E’ l’anima della scommessa lanciata da ISAL due anni fa con il Progetto “Cento Città” che ha creato un network di eccellenze con l’obiettivo di combattere il dolore e ridare il sorriso alle persone.
Un progetto ambizioso che ha già ottenuto molti risultati di rilievo e che toccherà punte d’eccellenza con la “Giornata Nazionale contro il dolore” in programma il 16 ottobre nelle principali piazze delle 31 città che, fino ad oggi, hanno aderito al progetto.

Molti gli sponsor che hanno creduto e sostenuto Fondazione ISAL in questo suo cammino tra cui spiccano i nomi di Melinda, il Consorzio della Val di Non che produce le uniche mele DOP d’Italia, impegnato nella divulgazione di informazioni sulla corretta alimentazione e sul benessere delle persone, e CartaBCC, il brand delle carte di credito emesse da Iccrea Banca (l’Istituto Centrale del Credito Cooperativo), che ha attivato nell’aprile di quest’anno un numero verde specialistico sulla cura del dolore, dedicato a tutti i titolari di CartaBCC.
A seguire, tra i sostenitori, il ringraziamento va anche a GVM Care&Research, St. Jude Medical e Grünenthal.

Un evento di sicuro rilievo quello del prossimo 28 settembre che, per la sua importanza e specificità, oltre ad essere stato orgogliosamente inserito nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, ha anche ottenuto illustri patrocini come quello del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati, del Ministero della Salute, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e Ricerca.

Sarà un rincorrersi ed alternarsi di voci ed opinioni che arriveranno da posti ed esperienze diverse, ma che correranno tutte su un unico ed ideale filo che lega la volontà comune.
Quella di poter vivere una vita senza dolore.

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genziana



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MessaggioInviato: Mer Nov 02, 2011 11:04    Oggetto: 150° UNITA' D'ITALIA - 90° Viaggio del MILITE IGNOTO - 2/11/ Rispondi citando




        .........



        _ 90° Anniversario del Milite Ignoto _


Esattamente 90 anni fa, il 4 novembre 1921, ebbe luogo la tumulazione del Milite Ignoto nel sacello dell’Altare della Patria.

Dopo la 1^ guerra mondiale, le Nazioni che vi avevano partecipato vollero onorare i sacrifici e gli eroismi delle collettività nella salma di un anonimo Combattente, caduto armi in pugno. In Italia l’allora Ministero della guerra dette incarico ad un’apposita commissione di esplorare tutti i luoghi nei quali si era combattuto e di scegliere una salma ignota e non identificabile per ognuna delle zone del fronte: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, tratto da Castagnevizza al mare.

Undici salme, una sola delle quali sarebbe stata tumulata a Roma al Vittoriano, furono trasportate nella Basilica di Aquileia. Qui venne operata la scelta tra undici bare identiche. A guidare la sorte fu chiamata una popolana di Trieste, Maria Bergamas, il cui figlio Antonio – disertore dell'esercito austriaco e volontario nelle fila italiane – era caduto in combattimento senza che il suo corpo potesse essere identificato.

Il Feretro prescelto fu trasferito a Roma su ferrovia, con un convoglio speciale a velocità ridotta sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma, ricevendo gli onori delle folle presso ciascuna stazione e lungo gran parte del tracciato.

Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei Caduti, con il Re in testa, e le Bandiere di tutti i reggimenti attesero l’arrivo del convoglio nella Capitale e mossero incontro al Milite Ignoto per renderGli solenne omaggio.

Il Feretro fu poi scortato da un gruppo di dodici decorati di Medaglia d'Oro fino alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, al cui interno rimase esposto al pubblico.

L’epilogo avvenne il 4 novembre 1921 con una solenne cerimonia.

Più di trecentomila persone accorsero per quel giorno a Roma da ogni parte d’Italia e più di un milione di italiani fece massa sulle strade della Capitale.

Il corteo avanzò lungo Via Nazionale, lungo la quale erano rappresentati i soldati di tutte le armi e di tutti i servizi dell’Esercito.

Dinanzi al gran monumento, in piazza Venezia, uno smisurato picchetto fu schierato in quadrato, mentre 335 Bandiere dei reggimenti attendevano il Feretro.

Prima della tumulazione, un soldato semplice pose sulla bara l’elmetto da fante.

I militari presenti e i rappresentanti delle nazioni straniere erano sull’attenti, mentre tutto il popolo in ginocchio.

Il feretro del Milite Ignoto veniva quindi inserito nel sacello e così tumulato presso quel monumento che poteva ora ben dirsi Altare della Patria.





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