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1861-2011:ricordiamo insieme i 150 anni dell'unità d'Italia.
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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mer Apr 20, 2011 14:17    Oggetto: Rispondi citando


Andiamo avanti con i film che raccontano la nostra storia e che vedono il nostro capitano tra i protagonisti.
E' la volta di "IL SANGUE DEI VINTI",con la regia di Michele Soavi,tratto dal libro omonimo di Giampaolo Pansa.



TRAMA DEL FILM


E' il 19 luglio 1943, un giorno fatale per Roma e l'Italia. E per Francesco Dogliani (Michele Placido), commissario di polizia. Pochi minuti dopo le 11, quattro gruppi di B17 e cinque gruppi di B24 bombardano lo scalo ferroviario a San Lorenzo, causando ingenti danni e molte vittime. Tra gli edifici che crollano, colpiti da una bomba, c'è un palazzo popolare dove Dogliani vive e dove è stato scoperto il cadavere di una giovane prostituta, Costantina (Barbora Bobulova), uccisa con un colpo di pistola che ne ha sfigurato il volto. Nel modesto appartamento della morta, nascosta dentro un armadio, il commissario scopre la piccola figlia della prostituta, Elisa (Teresa Dossena). Riesce a salvarla, portandola via in braccio, pochi istanti prima dello scoppio che sbriciola il caseggiato distruggendo ogni cosa e facendo "sparire" il cadavere di Costantina, quindi le prove di un delitto.
Nel corso del bombardamento muore il giovane marito della sorella di Dogliani, Lucia (Alina Nedelea). Gli sposi stavano venendo a Roma in viaggio di nozze. Di Lucia, rientrata nella casa paterna, si occupa Ettore (Alessandro Preziosi), l'altro fratello.




Dogliani infatti insiste ad indagare nonostante il caos dovuto al bombardamento, e la scomparsa del "corpo del reato". Lo fa per una sorta di impegno morale preso con la piccola Elisa e perché, nonostante tutto e tutti, il fiuto gli dice che quello non è un omicidio "qualunque". Ben presto il commissario scopre il convivente della donna, un infermiere del Policlinico, tale Foresi (Valerio Binasco), con precedenti penali e sospettato di essere un sovversivo. Le evidenze sono tutte contro di lui, che viene arrestato. Dogliani scopre anche che la morta ha una sorella, Anna (Barbora Bobulova), giovane attrice di teatro che ha appena debuttato con l'Antigone di Sofocle. Anna ha un amante importante, Nardi (Massimo Poggio), funzionario del ministero per la propaganda. I due hanno atteggiamenti che insospettiscono Dogliani, che sta loro addosso tanto da indispettire Nardi...
Ma siamo al 25 luglio. Il Re fa arrestare Mussolini e Badoglio prende le redini del governo dichiarando che la guerra continua. I fascisti non si fanno più vedere in giro. Gli antifascisti escono dalle prigioni e, tra questi, anche Foresi.
E' il gennaio del '45: Dogliani torna in Piemonte, nella casa dei genitori, per un periodo di convalescenza. Qui rivede sua sorella Lucia. La giovane si è indurita dopo la morte del giovane marito ed i continui bombardamenti degli americani l'hanno portata a nutrire un sordo rancore verso gli alleati. A cena, ha un violento scontro con tutti gli altri, che accusa di tradimento e di aver calpestato l'onore. Lucia, una mattina, abbandona la casa e va ad arruolarsi come ausiliaria nell'esercito della Rsi. L'anziano padre prega il figlio Francesco di correrle dietro, riprenderla e riportarla a casa. Il tentativo di Dogliani di convincere Lucia a tornare a casa fallisce. La vede andar via su un camion, cantando insieme ad altre camicie nere.
Dogliani però non desiste. Si mette a cercarla. Raggiunge il comando partigiano dove milita suo fratello Ettore e lì scopre, con sua sorpresa, che c'è Foresi in qualità di commissario politico della brigata. Per Dogliani, nonostante tutto, Foresi resta l'indiziato numero uno di un delitto. Ha con lui un dialogo brusco, tanto che suo fratello Ettore gli consiglia di andar via...




Quando arriva finalmente a casa, scopre che è stata devastata ed i suoi genitori sono stati uccisi. L'odio montante tra le due parti in guerra non li ha risparmiati. Mentre li seppellisce, Dogliani viene raggiunto dal fratello Ettore. Dogliani accusa i compagni del fratello dell'uccisione dei genitori. La politica e gli odi innescati dalla guerra civile li dividono.
Dogliani riprende a cercare Lucia. La vuole salvare a tutti i costi. La trova presso un distaccamento di camicie nere e tedeschi. Parla con lei, ma ogni tentativo per convincerla a mollare tutto e tornare a casa fallisce. Lucia ha fatto la sua scelta e vuole rispetto. Ama tutti i suoi famigliari ma vuole compiere il suo destino.
Mentre parla con Lucia, Dogliani vede arrivare Anna insieme alla bambina, la figlia di Costantina. Sono state prese dai tedeschi, mentre Anna faceva la staffetta partigiana. Dogliani, con l'aiuto di Lucia, riesce a far fuggire Anna e la bambina.
Trovano rifugio in una baita di montagna, mentre i nazifascisti mettono a ferro e fuoco le campagne.
Nella baita Anna racconta la sua verità sulla morte di Costantina. Dice che c'è stata una violenta lite a causa di Nardi, e che è partito casualmente un colpo. Dogliani non ci crede anche perché ha capito che in realtà la morta non è Costantina, ma Anna l'attrice. Approfittando della straordinaria somiglianza, Costantina si è sostituita ad Anna. Vistasi scoperta, Costantina ammette ma sostiene che comunque la morte di sua sorella è stata una disgrazia. Lei ha preso la sua identità per poter stare accanto a Nardi, spiarlo e riferire tutto al gruppo antifascista di cui faceva parte.





E' il 25 aprile, l'insurrezione. I partigiani scendono dalle montagne ed entrano nelle città. Fascisti e tedeschi si arrendono, tranne alcuni gruppi che resistono ad oltranza in cerca della "bella morte". Tra questi c'è anche Lucia che ha seguito un marò in cima ad un campanile da dove fa cecchinaggio contro la gente in strada. A snidare i cecchini c'è Ettore con i suoi uomini, ma viene colpito e muore tra le braccia di Dogliani appena arrivato.
Dogliani vede portar via Lucia a bordo di un camion. Sa che la portano a morire. Nel disperato tentativo di salvarla, va a cercarla ovunque. Incontra perfino Foresi ed Anna, che gli danno una indicazione frammentaria. Quando arriva sul luogo indicato, non c'è più niente, solo le tracce di una fucilazione...
Anni dopo, Dogliani si trova in macchina con Elisa, la figlia di Costantina, che ormai è diventata una donna adulta. Viaggiano verso il nord, verso una destinazione che Dogliani non conosce ma dove Elisa ha deciso di portarlo...




Il film è stato presentato fuori concorso alla Festa del Cinema di Roma ed è stato proiettato il 26 ottobre 2008. La proiezione è stata seguita da un dibattito a cui hanno partecipato Giampaolo Pansa, autore del libro che ha ispirato il film, insieme allo sceneggiatore Massimo Sebastiani, al protagonista Michele Placido, al senatore del PDL Maurizio Gasparri, al deputato e sindacalista della CISL Savino Pezzotta e alla politica e giornalista dell'Unità Miriam Mafai e alcuni rappresentanti di associazioni partigiane.
In precedenza il film era stato rifiutato dal Festival del Cinema di Venezia. Inoltre il 7 febbraio 2009 è stato presentato all'European Film Market di Berlino.


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cinzia76



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MessaggioInviato: Gio Apr 21, 2011 11:26    Oggetto: Rispondi citando




Amica e sorella mia Very Happy ,

che questa Santa Pasqua possa portare amore, gioia e serenita' a te, a Niky, ai vostri piccoli e grandi amori Mattia e Simone e a tutti i vostri cari Laughing .....

AUGURISSIMI teso' ti voglio un mondo di bene Wink !

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ominoturchino



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MessaggioInviato: Lun Apr 25, 2011 13:04    Oggetto: 66° 25 APRILE: 2011 Centocinquantenario dell'UNITA' D'ITALIA Rispondi citando




          ......



    Evviva !!! CentoCinquantenario dell'Unità d'Italia

    25 Aprile 66°anniversario Festa della Liberazione

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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mar Apr 26, 2011 10:45    Oggetto: Rispondi citando


Di Francesco Calzolaio

25 APRILE 1945:IL GIORNO CHE FECE L'ITALIA LIBERA E UNITA.

In Italia i primi mesi del 1945 sono difficili da immaginare. Il freddo è particolarmente intenso, la popolazione è logorata dalla lunga guerra, già da tempo gli Alleati sono sul territorio ma ancora non riescono a superare la cosiddetta linea Gotica che separa l'Italia in due parti una delle quali, dalla Toscana in su, è ancora sotto la dominazione nazifascista.

Intanto in Europa il processo di liberazione dalla morte nera (che in questo caso non è la peste) procede: mentre l'Armata rossa attacca da Est liberando la Polonia, l'Ungheria e l'Austria, gli anglo-americani invadono la Germania stessa incontrando una scarsa resistenza visto che gran parte delle truppe naziste è impegnata sul fronte orientale contro l'Unione Sovietica. In Italia gli eventi vanno maturando. Gli Alleati sono sbarcati in Sicilia nel 1943 e entro la fine dell'anno liberano il Sud Italia, un anno dopo arriveranno a Roma, manca solo il Nord, tutto quanto si estenda a Nord della Toscana. Dopo il freddo inverno del '45 si prepara un caldo aprile, ne ripercorriamo alcuni avvenimenti.



La volontà e l'organizzazione delle bande partigiane, della popolazione e della classe politica italiana riunita nel Comitato di liberazione nazionale (Cnl), coadiuvata dai militari americani, sono già in campo, le linee generali sono state disegnate e si aspetta solo il momento opportuno per dichiarare lo stato di insurrezione generale. Il 13 aprile il generale americano Clark invia un messaggio ai partigiani, pronti a scendere dalle montagne, chiedendo loro di rinviare l’inizio dell’offensiva finché non ci siano condizioni migliori e più favorevoli.

Ma la notizia non trova il favore degli Italiani, la linea del PCI, una delle forze maggioritarie in campo, è di non aspettare oltre e di lasciare che l’iniziativa sia presa dalle singole realtà locali. Così avviene, il 21 aprile Ferrara insorge, subito dopo è la volta di Modena, Reggio Emilia e Parma. A Torino il 18 si indice uno sciopero generale che blocca tutte le attività produttive e prepara la popolazione per l’insurrezione del giorno dopo. Nel frattempo Mussolini decide di spostare a Milano il governo, vi arriverà il 18 aprile scortato dalle SS.




Il 25 aprile il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia (CLNAI) dà l’ordine di insurrezione generale, i ferrovieri entrano in sciopero e le fabbriche vengono occupate. Mussolini fa sapere di essere intenzionato ad incontrare i membri del CLNAI per trattare la resa. Il CLNAI impone due ore per l’accettazione della resa incondizionata, in serata Mussolini scappa. Il giorno dopo verrà riconosciuto nei pressi del confine con la Svizzera travestito da soldato tedesco, fucilato e “appeso” per i piedi in piazzale Loreto dove tempo prima una sorte simile era toccata ad un gruppo di partigiani. Fin qui una parziale sintesi degli avvenimenti, ma veniamo ai giorni nostri.







In Italia non c’è concordia nel ricordare il 25 aprile come data simbolica cui ricondurre la liberazione del Paese. Come sempre accade dalle nostre parti, l’ambiguità fa da padrona e le voci si rincorrono, si alternano e, come sempre, si contraddicono. Mai una condanna esplicita e unanime fu pronunciata contro il ventennio, là dove in Germania la popolazione ha saputo riconoscere l’orrore e rifiutarlo, in Italia i toni sono sempre più morbidi e le scusanti più opportunistiche e parziali.

“Ombre sui partigiani”, “la Resistenza non deve essere mitizzata”, “ma i partigiani hanno commesso anche dei crimini”, “25 aprile festa dei caduti di tutte le guerre”; lo sport nazionale non è solo il calcio, c’è anche l’impoverimento culturale che deriva dall’uniformità dei concetti e delle immagini, della storia e dei suoi personaggi, della memoria e delle coscienze. La Resistenza rappresenta tuttora un esempio di fiducia e amore per la propria patria, ma tant’è … Non resta che dire VIVA L’ITALIA, LIBERA E UNITA.

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Antonietta68



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MessaggioInviato: Mar Apr 26, 2011 17:45    Oggetto: Rispondi citando


LA RESISTENZA ITALIANA PRIMA DELLA LIBERAZIONE.

La Resistenza italiana, comunemente chiamata Resistenza (ma detta anche Resistenza partigiana o Secondo Risorgimento) fu il fenomeno storico costituito dall'insieme dei movimenti politici e militari che dopo l'8 settembre 1943 si opposero al nazifascismo[1][2] nell'ambito della guerra di liberazione italiana. Gli storici hanno evidenziato le diverse interpretazioni della Resistenza: come lotta di liberazione da un invasore straniero, come insurrezione popolare e guerra civile tra antifascisti e fascisti[3], come tentativo di rivoluzione da parte di alcuni gruppi partigiani socialisti e comunisti.[4]

Il movimento della Resistenza - inquadrabile storicamente nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all'occupazione nazifascista - fu caratterizzato in Italia dall'impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici), in maggioranza riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale i cui partiti componenti avrebbero più tardi costituito insieme i primi governi del dopoguerra.

La Resistenza costituisce il fenomeno storico nel quale vanno individuate le origini stesse della Repubblica italiana: l'Assemblea Costituente fu in massima parte composta da esponenti dei partiti che avevano dato vita al CLN, i quali scrissero la Costituzione fondandola sulla sintesi tra le rispettive tradizioni politiche ed ispirandola ai princìpi della democrazia e dell'antifascismo.

Il periodo storico individuato comunemente come Resistenza inizia, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 (il CLN fu fondato a Roma il 9 settembre) e termina alla fine del mese di aprile 1945. La scelta di celebrare la fine di quel periodo con il 25 aprile 1945 fu riferito dal CLNAI con la data dell'appello per l'insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano. La Resistenza italiana fu solo la prima parte del cosiddetto periodo costituzionale transitorio, che si concluse con la nomina del primo governo Parri del 21 giugno 1945, mentre la seconda parte terminerà il 1º gennaio 1948, giorno dell'applicazione della nuova Costituzione Italiana.




LA RESISTENZA PRIMA DELLA RESISTENZA

Piero Ambrosio sottolinea il filo rosso che lega le vicissitudini degli antifascisti italiani nella guerra di Spagna e la Resistenza.

Occorre precisare che le prime azioni partigiane avvengono ben prima dell'armistizio, ovvero nel febbraio 1942, quando il gruppo sotto il comando di Stojan Furlan inizia la guerriglia, facendo saltare i binari nella più lunga galleria che attraversa il Carso nella zona di San Daniele del Carso (ora Štanjel in Slovenia). Le autorità decidono di non divulgare la notizia per non mettere in luce che l'antifascismo, che trova sostegno fra la popolazione locale[senza fonte], incomincia a organizzare azioni militari. Il giorno del Corpus Domini del 1942, Giovanni Premoli, ex ufficiale dell'esercito italiano, e Stojan Furlan attaccano il presidio della milizia fascista sempre a San Daniele, procurandosi le armi con cui viene costituita la prima Squadra d'Assalto partigiana. L'evento ha un esito clamoroso e la compattezza antifascista della popolazione rende vane le indagini per la cattura dei responsabili dell'azione malgrado sull'accaduto indaghino sia la questura di Trieste che i carabinieri.

Nel marzo 1942 il Ministero degli Interni istituisce l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia. L'incarico di dirigerlo viene affidato al commissario Giuseppe Gueli, coadiuvato da Gaetano Collotti e Remigio Rebez, che applicheranno sistematicamente la tortura tanto che il gruppo prenderà il nome di "banda Collotti", dal nome del dirigente più "esperto" e caratterialmente portato all'applicare delle torture. Verrà torturato dal Collotti Ercole Miani che nel prosieguo rifiuterà la medaglia d'oro al valor militare proprio a causa di una medaglia d'argento alla memoria data allo stesso Collotti, giustiziato immediatamente dopo la Liberazione dai partigiani.

Di fronte all'intensificarsi della guerriglia che le rappresaglie non frenano, Benito Mussolini il 31 luglio 1942 si reca a Gorizia e convocati i più alti gradi dell'esercito impone di mettere in atto nell'immediato un ordine impartito in precedenza:
« …fucilare ai minimi sospetti, bruciare le case ed i villaggi dei contadini »



GENERALITA'.

Alla Resistenza presero parte gruppi organizzati e spontanei di diverse estrazioni politiche, uniti nel comune intento di opporsi militarmente (dove possibile collaborando con le truppe alleate) e politicamente al governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e degli occupanti della Germania nazista: la "guerra partigiana", si concluse il 25 aprile 1945, quando l'insurrezione armata proclamata dal Comitato di liberazione nazionale dell'Alta Italia (CLNAI) consentì di prendere il controllo di quasi tutte le città del nord del paese. La resa incondizionata dell'esercito tedesco si ebbe il 29 aprile, anche se in alcune città come Genova le forze tedesche si erano già arrese alle milizie partigiane nei giorni precedenti.


La Resistenza affonda le sue radici nel periodo che va dagli anni trenta fino alla fine della guerra, quando già esistevano deboli forme di opposizione alla dittatura di Benito Mussolini. Si può considerare che sia esistito anche un movimento resistenziale ante litteram consistente nell'opposizione anche armata all'ascesa del fascismo e alle azioni delle squadre d'azione, tentata negli anni venti in particolare dalle forze di sinistra (socialisti, comunisti, anarchici, sindacati).





LE OPPOSIZIONI AL REGIME.

Dopo l'omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924) e la decisa assunzione di responsabilità da parte di Mussolini, il Regno d'Italia avvia il processo di totalitarizzazione dello Stato che, anche grazie alle efficienti strutture monarchiche, darà luogo ad un sempre maggiore controllo e persecuzioni degli oppositori, a rischio di carcerazione e di confino.

Gli antifascisti si organizzano quindi in clandestinità in Italia e all'estero, creando una rudimentale rete di collegamenti, che però non producono risultati di rilievo, restando frammentate in piccoli gruppi non coordinati, incapaci di attaccare o almeno di minacciare il regime se si esclude qualche attentato realizzato in particolare dagli anarchici. La loro attività si limitava al versante ideologico: era copiosa la produzione di scritti, in particolare tra la comunità degli esuli antifascisti, che però di rado raggiungevano le masse.

Solo la guerra, e in particolare lo sfascio dello Stato innescato dall'ordine del giorno Grandi e dall' Armistizio di Cassibile dell'8 settembre 1943, offre ai clandestini l'occasione di allacciare e riallacciare legami fra loro, in ciò aiutati dalle forze angloamericane, che provvidero ad armarle ed aiutarle anche per gli aspetti logistici. Gli esponenti della Resistenza comprendevano rappresentanti del popolo, come nelle quattro giornate di Napoli o nella battaglia di Gorizia combattuta dagli operai monfalconesi, militanti dei partiti di sinistra, cattolici (Fiamme Verdi e Brigata Osoppo), repubblicani, popolari e liberali, defenestrati col consolidamento del regime dittatoriale.

Vi era poi una sorta di "resistenza militare", nata dopo l'Armistizio ad opera di reparti del Regio Esercito per imposizione superiore (si vedano a proposito i due fonogrammi inviati dal Comando Supremo alla Divisione Acqui prima della battaglia di Cefalonia o per iniziativa di ufficiali a capo di reparti dislocati nei Balcani e in Egeo (come Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, protagonisti delle battaglie di Rodi e Lero) o l'unica vera e propria campagna vittoriosamente condotta dalle truppe italiane contro i tedeschi all'indomani dell'8 settembre, la liberazione della Corsica. Da ricordare è anche la difesa di Porta San Paolo ad opera dei Granatieri di Sardegna (e altri reparti) affiancati dalla popolazione civile durante la mancata difesa di Roma. La "resistenza militare" si distingue comunque da quella propriamente detta poiché è portata avanti da componenti delle Forze Armate, riconoscibili come personale in uniforme "sottoposto alla giurisdizione militare", mentre i partigiani sono impegnati nella guerra asimmetrica. Ciò non toglie che diversi militari del Regio Esercito sfuggiti alla cattura da parte dei tedeschi si siano uniti al movimento della Resistenza costituendo formazioni "badogliane"(apolitiche) come quelle capeggiate da Enrico Martini ("Mauri") e Piero Balbo , il Gruppo "Cinque Giornate" del colonnello Carlo Croce o l'Organizzazione Franchi fondata da Edgardo Sogno.



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MessaggioInviato: Mar Apr 26, 2011 18:52    Oggetto: Rispondi citando



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MessaggioInviato: Sab Apr 30, 2011 17:25    Oggetto: Rispondi citando


La Festa del lavoro o Festa dei lavoratori è una festività celebrata il 1º maggio di ogni anno che intende ricordare l'impegno del movimento sindacale ed i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori. La festa del lavoro è riconosciuta in molte nazioni del mondo ma non in tutte.
Più precisamente, con essa si intendono ricordare le battaglie operaie volte alla conquista di un diritto ben preciso: l'orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore (r.d.l. n. 692/1923). Tali battaglie portarono alla promulgazione di una legge che fu approvata nel 1867[1] nell'Illinois (USA). La Prima Internazionale richiese poi che legislazioni simili fossero introdotte anche in Europa.

L'origine della festa risale ad una manifestazione organizzata negli Stati Uniti dai Cavalieri del lavoro (Knights of Labor, associazione fondata nel 1869) a New York il 5 settembre 1882. Due anni dopo, nel 1884, in un'analoga manifestazione i Cavalieri del lavoro approvarono una risoluzione affinché l'evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate all'Internazionale dei lavoratori - vicine ai movimenti socialisti ed anarchici - suggerirono come data della festività il primo maggio.
Il Quarto Stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Ma a far cadere definitivamente la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago (USA) e conosciuti come rivolta di Haymarket. Questi fatti ebbero il loro culmine il 4 maggio quando la polizia sparò sui manifestanti provocando numerose vittime.

L'allora presidente Grover Cleveland ritenne che la festa del primo maggio avrebbe potuto costituire un'opportunità per commemorare questo episodio. Successivamente, temendo che la commemorazione potesse risultare troppo a favore del nascente socialismo, stornò l'oggetto della festività sull'antica organizzazione dei Cavalieri del lavoro.

La data del primo maggio fu adottata in Canada nel 1894 sebbene il concetto di festa del lavoro sia in questo caso riferito a precedenti marce di lavoratori tenute a Toronto e Ottawa nel 1872.

In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889 e ratificata in Italia due anni dopo.

LA FESTA DEI LAVORATORI IN ITALIA

In Italia la festività fu soppressa durante il ventennio fascista - che preferì festeggiare una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma - ma fu ripristinata subito dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1945.

Nel 1947 la ricorrenza venne funestata a Portella della Ginestra (PA) quando, la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina.

Dall'anno 1990 i sindacati italiani CGIL, CISL e UIL organizzano annualmente a Roma un concerto per celebrare il primo maggio (vedi Concerto del Primo Maggio a Roma a cui partecipano annualmente centinaia di migliaia di persone).

LE PRIMA VITTIME DELLA STORIA OPERAIA IN ITALIA

Le prime vittime della storia operaia furono napoletane. Nell’estate del 1863, accade un triste episodio a Portici, nel cortile delle officine di Pietrarsa. Una vicenda storica poco conosciuta, ma riportata dai documenti del “Fondo Questura” dell’Archivio di Stato di Napoli.

Dopo l’Unità d’Italia, il Real Opificio Borbonico di Pietrarsa, il più grande e importante della penisola, passa alla proprietà di Jacopo Bozza. Costui, artificiosamente, prima dilata l’orario di lavoro abbassando nello stesso tempo gli stipendi, poi taglia in maniera progressiva il personale mettendo in ginocchio la produzione. Il 23 giugno 1863, a seguito delle proteste del personale, promette di reimpiegare centinaia di operai licenziati tra i 1050 impiegati al 1860.

Sui muri dello stabilimento compare questa scritta: "muovetevi artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria". Sulle pareti prossime ai bagni vengono segnate col carbone queste parole: “Morte a Vittorio Emanuele II, il suo Regno è infame, la dinastia Savoia muoia per ora e per sempre”.

La promessa di Bozza è uno dei tanti bluff che l’impresario nasconde continuando a rassicurare i lavoratori e attenuando la loro ira elargendo metà della paga concessa dal nuovo Governo, una sorta di prima forma di cassa-integrazione.

Il 31 luglio 1863 gli operai scendono ad appena 458 mentre a salire è la tensione. Bozza da una parte promette pagamenti che non rispetterà, dall’altra minaccia nuovi licenziamenti che decreterà.

La provocazione supera il limite della pazienza e al primo pomeriggio del 6 agosto 1863, il Capo Contabile dell’opificio di Pietrarsa, Sig. Zimmermann, chiede alla pubblica sicurezza sei uomini con immediatezza perché gli operai che hanno chiesto un aumento di stipendio incassano invece il licenziamento di altre 60 unità. Poi implora addirittura l’intervento di un Battaglione di truppa regolare dopo che gli operai si sono portati compatti nello spiazzo dell’opificio in atteggiamento minaccioso.

Convergono la Guardia Nazionale Italiana, i Bersaglieri e i Carabinieri, che circondano il nucleo industriale. Al cancello d’ingresso trovano l’opposizione dei lavoratori e calano le baionette. Al segnale di trombe al fuoco, sparano sulla folla, sui tanti feriti e sulle vittime. Le forze dell'ordine parlano di sole due vittime e sei feriti trasportati all’Ospedale. Ma i morti sono almeno quattro: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri. Sono questi i nomi accertati dei primi martiri della storia operaia italiana.











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MessaggioInviato: Mar Mag 03, 2011 09:46    Oggetto: Rispondi citando


Di personaggi storici,artisti,letterati e quant'altro l'Italia dell'unificazione è piena.Andiamo a conoscerli meglio partendo da coloro che sono stati gli artefici dell'unificazione.




Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza il 4 luglio 1807. Carattere irrequieto e desideroso di avventura, già da giovanissimo si imbarca come marinaio per intraprendere la vita sul mare.

Nel 1832, appena venticinquenne è capitano di un mercantile e nello stesso periodo inizia ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani (come, ad esempio quello mazziniano della "Giovine Italia"), e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza.

Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina.
Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia basate sul movimento e sulle azioni a sorpresa. Questa esperienza avrà un grande valore per la formazione di Giuseppe Garibaldi sia come condottiero di uomini sia come tattico imprevedibile.

Nel 1848 torna in Italia dove sono scoppiati i moti di indipendenza, che vedranno le celebri Cinque Giornate di Milano. Nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara, ed è l'anima delle forze repubblicane durante i combattimenti contro i francesi alleati di Papa Pio IX. Purtroppo i repubblicani devono cedere alla preponderanza delle forze nemiche e Garibaldi il 2 Luglio 1849 deve abbandonare Roma.
Di qui, passando per vie pericolosissime lungo le quali perde molti compagni fedeli, tra i quali l'adorata moglie Anita, riesce a raggiungere il territorio del Regno di Sardegna.

Inizia quindi un periodo di vagabondaggio per il mondo, per lo più via mare, che lo porta infine nel 1857 a Caprera.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele, che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari, corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi.

Partecipa alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue operazioni e dei suoi Cacciatori.

Nel 1860 Giuseppe Garibaldi è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto(GE) il 6 maggio 1860 e sbarca a Marsala cinque giorni dopo. Da Marsala inizia la sua marcia trionfale; batte i Borboni a Calatafimi, giunge a Milazzo, prende Palermo, Messina, Siracusa e libera completamente la Sicilia.

I1 19 agosto sbarca in Calabria e, muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio, Cosenza, Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno.
I1 26 ottobre Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.

Nel 1862 si mette alla testa di una spedizione di volontari al fine di liberare Roma dal governo papalino, ma l'impresa è osteggiata dai Piemontesi dai quali viene fermato il 29 agosto 1862 ad Aspromonte.
Imprigionato e poi liberato ripara nuovamente su Caprera, pur rimanendo in contatto con i movimenti patriottici che agiscono in Europa.

Nel 1866 partecipa alla Terza Guerra di Indipendenza al comando di Reparti Volontari. Opera nel Trentino e qui coglie la vittoria di Bezzecca (21 luglio 1866) ma, nonostante la situazione favorevole in cui si era posto nei confronti degli austriaci, Garibaldi deve sgomberare il territorio Trentino dietro ordine dei Piemontesi, al cui dispaccio risponde con quel "Obbedisco", rimasto famoso.

Nel 1867 è nuovamente a capo di una spedizione che mira alla liberazione di Roma, ma il tentativo fallisce con la sconfitta delle forze garibaldine a Mentana per mano dei Franco-Pontifici.

Nel 1871 partecipa alla sua ultima impresa bellica combattendo per i francesi nella guerra Franco-Prussiana dove, sebbene riesca a cogliere alcuni successi, nulla può per evitare la sconfitta finale della Francia.
Torna infine a Caprera, dove passerà gli ultimi anni e dove si spegnerà il 2 giugno 1882.

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MessaggioInviato: Sab Mag 14, 2011 14:33    Oggetto: Rispondi citando





Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, nobile dei Marchesi di Cavour, Conte di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come Conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – Torino, 6 giugno 1861), è stato un politico e patriota italiano.

Fu ministro del Regno di Sardegna dal 1850 al 1852, Capo del governo dal 1852 al 1859 e dal 1860 al 1861. Nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno d'Italia, divenne il primo Presidente del Consiglio del nuovo Stato e con tale carica morì.

Fu protagonista del Risorgimento come sostenitore delle idee liberali, del progresso civile ed economico, dell'anticlericalismo, dei movimenti nazionali e dell'espansionismo del Regno di Sardegna ai danni dell'Austria e dello Stato Pontificio.

In economia promosse il libero scambio, i grandi investimenti industriali (soprattutto in campo ferroviario) e la cooperazione fra pubblico e privato. In politica sostenne la promulgazione e la difesa dello Statuto albertino. Capo della Destra moderata, siglò un accordo (Connubio) con la Sinistra di Urbano Rattazzi, mirante alla realizzazione di riforme che escludessero le ali estreme del Parlamento.

Contrastò apertamente le idee repubblicane di Giuseppe Mazzini e spesso si trovò in urto con Giuseppe Garibaldi della cui azione temeva il potenziale rivoluzionario. In politica estera coltivò con abilità l'amicizia con la Francia grazie alla quale ottenne l'espansione territoriale del Piemonte in Italia settentrionale e in Toscana.

Benché non avesse un disegno di unità nazionale preordinato riuscì con successo a gestire gli eventi che portarono alla formazione del Regno d'Italia.





Stemma dei Cavour. Camillo avrebbe ereditato il titolo di marchese dal fratello maggiore, che invece morì dopo di lui.
Il palazzo a Torino dove nacque Cavour, oggi.
Targa sulla facciata di Palazzo Cavour, a Torino.



Camillo nacque il 10 agosto 1810 nella Torino napoleonica. Suo padre, il nobile piemontese Michele Benso di Cavour, era collaboratore e amico del governatore Principe Camillo Borghese che fu padrino di battesimo del piccolo Benso al quale trasmise il nome. La madre di Camillo, Adèle de Sellon (1780-1846), apparteneva invece ad una ricca e nobile famiglia calvinista di Ginevra, che aveva raggiunto un'ottima posizione negli ambienti borghesi della città svizzera.

Aristocratico,Cavour in gioventù frequentò il 5º corso della Regia Accademia Militare di Torino (conclusosi nel 1825) e nell'inverno 1826-27, grazie ai corsi della Scuola di Applicazione del Corpo Reale del Genio di Torino, diventò ufficiale del Genio.

Il giovane si dedicò ben presto, per interessi personali e per educazione familiare, alla causa del progresso europeo. Fra i suoi ispiratori fu il filosofo inglese Jeremy Bentham alle cui dottrine si accostò per la prima volta nel 1829. In quell'anno lesse il suo Traité de législation civile et pénale, in cui si enunciava il principio politico «Misura del giusto e dell'ingiusto è soltanto la massima felicità del maggior numero». L'altro concetto di Bentham secondo cui ogni problema poteva ricondursi a fatti misurabili, forniva poi al realismo di Cavour una base teorica utile alla sua inclinazione all'analisi matematica.

Trasferito nel 1830 a Genova, l'ufficiale Camillo Benso ebbe modo di conoscere la marchesa Anna Giustiniani Schiaffino, con la quale avvierà una importante amicizia intrattenendo con lei un lungo rapporto epistolare.

All'età di ventidue anni Cavour venne nominato sindaco di Grinzane, dove la famiglia aveva dei possedimenti, e ricoprì tale carica fino al 1848. Dal dicembre 1834 prese a viaggiare all'estero studiando lo sviluppo economico di paesi largamente industrializzati come Francia e Gran Bretagna.

Accompagnato dall'amico Pietro di Santarosa (1805-1850) Cavour nel febbraio del 1835 raggiunse infatti Parigi, dove si fermò per quasi due mesi e mezzo. In questo periodo visitò istituzioni pubbliche di ogni genere e frequentò gli ambienti politici del regime. Partito dalla capitale francese, il 14 maggio 1835 arrivò a Londra dove si interessò di questioni sociali.

Durante questo periodo il giovane conte sviluppò quella propensione conservatrice che lo accompagnerà per tutta la vita, ma al tempo stesso sentì fortemente crescere l'interesse e l'entusiasmo per il progresso dell'industria, per l'economia politica e per il libero scambio.

Di nuovo a Parigi, fra il 1837 e il 1840 frequentò assiduamente la Sorbona e incontrò, oltre a vari intellettuali, gli esponenti della monarchia di Luigi Filippo della quale conservava una viva ammirazione.

Da proprietario terriero a deputato (1843-1850

Fra il ritorno dai viaggi all'estero nel giugno del 1843 e l'ingresso al governo nell'ottobre del 1850, Cavour si dedicò ad una nutrita serie di iniziative nel campo dell'agricoltura, dell'industria, della finanza e della politica.

Importante possidente terriero, Cavour contribuì, già nel maggio 1842, alla costituzione dell'Associazione agraria che si proponeva di promuovere le migliori tecniche e politiche agrarie, per mezzo anche di una Gazzetta che fin dall'agosto 1843 pubblicava un articolo del conte. Cavour, impegnatissimo nell'attività di gestione soprattutto della sua tenuta di Leri, nell'autunno 1843, grazie alla collaborazione di Giacinto Corio iniziò un'attività di miglioramenti nei settori dell'allevamento del bestiame, dei concimi e delle macchine agricole. In sette anni (dal 1843 al 1850) la produzione del conte di riso, frumento e latte crebbe sensibilmente, quella di mais addirittura risultò triplicata.

Ad integrare le innovazioni della produzione agricola, Camillo Benso intraprese anche delle iniziative di carattere industriale con risultati più o meno buoni. Fra le iniziative più importanti, la partecipazione alla costituzione della Società anonima dei molini anglo-americani di Collegno nel 1850, di cui il conte divenne successivamente il maggiore azionista e che ebbe dopo l'unità d'Italia una posizione di primo piano nel Paese.

Le estese relazioni d'affari a Torino, Chivasso e Genova e soprattutto l'amicizia dei banchieri De La Rüe,consentirono inoltre a Cavour di operare in un mercato più ampio rispetto a quello usuale degli agricoltori piemontesi cogliendo importanti opportunità di guadagno. Nell'anno 1847, ad esempio, realizzò introiti assai cospicui approfittando del pessimo raccolto di cereali in tutta Europa che diede luogo ad un aumento della richiesta spingendo i prezzi a livelli inconsueti.
Lo sviluppo delle idee politiche
L'inaugurazione della linea ferroviaria Torino-Genova nel 1854. Cavour attribuì alle ferrovie un'importanza decisiva nello sviluppo del progresso civile e del movimento nazionale.

Oltre ad i suoi interventi sulla Gazzetta della Associazione agraria, Cavour in quegli anni si dedicò alla scrittura di alcuni saggi sui progressi dell'industrializzazione e del libero scambio in Gran Bretagna, e sugli effetti che ne sarebbero derivati sull'economia e sulla società italiana.

Principalmente Cavour esaltava le ferrovie come strumento di progresso civile al quale, piuttosto che alle sommosse, era affidata la causa nazionale. Egli a tale proposito mise in rilievo l'importanza che avrebbero avuto due linee ferroviarie: una Torino-Venezia e una Torino-Ancona.

Senza alcun bisogno di una rivoluzione, il progresso della civiltà cristiana e lo sviluppo dei lumi sarebbero sfociati, secondo il conte, in una crisi politica di cui l'Italia era chiamata a profittarne.

Camillo Benso aveva infatti fede nel progresso che era soprattutto intellettuale e morale, poiché risorsa della dignità e della capacità creativa dell'uomo. A tale convinzione si accompagnava l'altra che la libertà economica è causa di interesse generale, destinata a favorire tutte le classi sociali. Sullo sfondo di questi due principi emergeva il valore della nazionalità:
« La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità".


L'inaugurazione della linea ferroviaria Torino-Genova nel 1854. Cavour attribuì alle ferrovie un'importanza decisiva nello sviluppo del progresso civile e del movimento nazionale.



Nel 1847 Cavour fece la sua comparsa ufficiale sulla scena politica come fondatore, assieme al cattolico liberale Cesare Balbo, del periodico Risorgimento, di cui assunse la direzione. Il giornale, costituitosi grazie ad un ammorbidimento della censura di Re Carlo Alberto, si schierò più apertamente di tutti gli altri, nel gennaio del 1848, a favore di una costituzione.

La presa di posizione, che era anche di Cavour, si rimarcò con la caduta in Francia (24 febbraio 1848) della cosiddetta Monarchia di luglio, con la quale crollava il riferimento politico del conte in Europa.

In questa atmosfera, il 4 marzo 1848, Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino. Questa "costituzione breve" deluse gran parte dell'opinione pubblica liberale, ma non Cavour che annunciò una importante legge elettorale per la quale era stata nominata una commissione, presieduta da Cesare Balbo, e della quale anche lui faceva parte. Tale legge con qualche adeguamento rimase in vigore fino alla riforma elettorale del Regno d'Italia del 1882.

Con la repubblica in Francia, la rivoluzione a Vienna e Berlino, l'insurrezione a Milano e il sollevamento del patriottismo in Piemonte e Liguria, Cavour, temendo che il regime costituzionale potesse diventare vittima dei rivoluzionari, si pose in testa al movimento interventista incitando il re ad entrare in guerra contro l'Austria e ricompattare l'opinione pubblica.

Il 23 marzo 1848, Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria. Dopo i successi iniziali, l'andamento del conflitto mutò e la vecchia aristocrazia militare del regno fu esposta a dure critiche. Alle prime sconfitte piemontesi Cavour chiese che si risalisse ai colpevoli che avevano tradito le prove di valore dei semplici soldati. La deprecata condotta della guerra spinse allora alla convinzione che il Piemonte non sarebbe stato al sicuro fino a quando i poteri dello Stato non fossero stati controllati da uomini di fede liberale.


Nel 1848 Cavour sostenne la necessità di dichiarare guerra all'Austria come soluzione al pericolo rivoluzionario che minacciava il Piemonte. Nel dipinto, la Battaglia di Pastrengo.




Il 27 aprile 1848 ci furono le prime elezioni del nuovo regime costituzionale. Cavour, forte della sua attività di giornalista politico, si candidò alla Camera dei Deputati del Parlamento e fu eletto nelle elezioni suppletive del 26 giugno. Fece il suo ingresso alla Camera (Palazzo Carignano) prendendo posto nei banchi di destra il 30 giugno 1848.Fedele agli interessi piemontesi, che egli vedeva minacciati dalle forze radicali genovesi e lombarde, Cavour fu oppositore sia dell'esecutivo di Cesare Balbo, sia di quello successivo del milanese Gabrio Casati (1798-1863). Tuttavia quando, a seguito della sconfitta di Custoza, il governo Casati chiese i pieni poteri per poter meglio gestire la grave situazione, Cavour si pronunciò a favore. Ma i fatti precipitarono, con l'abbandono di Milano agli austriaci e con l'Armistizio di Salasco del 9 agosto 1848.

Al termine di questa prima fase della guerra, il governo di Cesare di Sostegno e il successivo di Ettore di San Martino imboccarono la strada della diplomazia. Entrambi furono appoggiati da Cavour che criticò aspramente Gioberti ancora risoluto a combattere l'Austria. Nel suo primo grande discorso parlamentare, Camillo Benso, il 20 ottobre 1848 si pronunciò infatti per il rinvio delle ostilità, confidando nella mediazione diplomatica della Gran Bretagna, gelosa della nascente potenza germanica e quindi favorevole alla causa italiana. Con l'appoggio di Cavour la linea moderata del governo San Martino passò, anche se il debole esecutivo su un argomento minore rassegnò le dimissioni il 3 dicembre 1848.

Nell'impossibilità di formare una diversa compagine ministeriale, Re Carlo Alberto diede l'incarico a Gioberti, il cui governo (insediatosi il 15 dicembre 1848) Cavour considerò di "pura sinistra". A discapito del conte arrivarono anche le elezioni del 22 maggio 1849, al cui ballottaggio fu sconfitto. Lo schieramento politico della maggioranza era tuttavia troppo eterogeneo per affrontare la difficile situazione del Paese, sospeso ancora fra pace e guerra, e Gioberti dovette dimettersi il 21 febbraio 1849.

Cambiando radicalmente politica di fronte alla crisi rivoluzionaria di cui ravvisava ancora il pericolo, Cavour si pronunciò per una ripresa delle ostilità contro l'Austria. La sconfitta di Novara (23 marzo 1849) dovette precipitarlo nuovamente nello sconforto.

La grave sconfitta piemontese portò, il 23 marzo 1849, all'abdicazione di Carlo Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele. Costui, aperto avversario della politica del padre di alleanze con la sinistra, sostituì al governo dei democratici (che chiedevano la guerra a oltranza) un esecutivo presieduto dal generale Gabriele de Launay, salutato con favore da Cavour. Tale governo riprese il controllo di Genova, insorta contro la monarchia, e fu sostituito da quello di Massimo d'Azeglio del quale Camillo Benso accettò la visione del Piemonte come roccaforte della libertà italiana.

Le elezioni del 15 luglio 1849 portarono, tuttavia, ad una nuova, benché debole, maggioranza dei democratici. Cavour fu rieletto, ma D'Azeglio convinse Vittorio Emanuele II a sciogliere la Camera dei Deputati e il 20 novembre 1849 il re emanò il Proclama di Moncalieri, con cui invitava il suo popolo ad eleggere candidati più moderati che non fossero a favore di una nuova guerra. Il 9 dicembre fu rieletta l'assemblea che, finalmente, espresse un voto schiacciante a favore della pace. Fra gli eletti figurava di nuovo Cavour che, nel collegio di Torino I, ottenne 307 voti contro i 98 dell'avversario.

In quel periodo Camillo Benso si mise in evidenza anche per le sue doti di abile operatore finanziario. Egli ebbe infatti una parte di primo piano nella fusione della Banca di Genova e della nascente Banca di Torino nella Banca Nazionale degli Stati Sardi.

Dopo il successo elettorale del dicembre 1849 Cavour divenne una delle figure dominanti dell'ambiente politico piemontese e gli venne riconosciuta la funzione di guida della maggioranza moderata che si era costituita.

Forte di questa posizione sostenne che era arrivato il tempo delle riforme, favorite dallo Statuto albertino che aveva creato reali prospettive di progresso. Si sarebbe potuto innanzi tutto staccare il Piemonte dal fronte cattolico-reazionario che trionfava nel resto d'Italia.

A tale scopo il primo passo fu la promulgazione delle cosiddette Leggi Siccardi (9 aprile e 5 giugno 1850) che abolirono vari privilegi del clero nel Regno di Sardegna e con le quali si aprì una fase di scontri con la Santa Sede, con episodi gravi sia da parte di D'Azeglio sia da parte di Papa Pio IX. Fra questi ultimi ci fu il rifiuto di impartire l'estrema unzione all'amico di Cavour, Pietro di Santarosa, morto il 5 agosto 1850. Con tutti i mezzi Cavour si scagliò contro il clero, ottenendo l'espulsione da Torino dell'Ordine dei Servi di Maria, nel quale militava il sacerdote che si era rifiutato di impartire i sacramenti, e influenzando, probabilmente, anche la decisione di arresto dell'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni.


Il Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, di cui Cavour condivise le prime iniziative politiche.



Massimo d'Azeglio fu Presidente del Consiglio del ministro Cavour.




Ministro del Regno di Sardegna (1850-1852)

Con la morte dell'amico Santarosa, che ricopriva la carica di Ministro dell'Agricoltura e del commercio, Cavour, forte della parte di primo piano assunta in quei giorni nella battaglia anticlericale e della sua riconosciuta competenza tecnica, fu designato subito come naturale successore del ministro scomparso.

Convinto da alcuni deputati, il Presidente del Consiglio D'Azeglio e successivamente Vittorio Emanuele II (incoraggiato dal generale La Marmora), accettarono a capo del Ministero dell'Agricoltura e del commercio Cavour, che prestò giuramento l'11 ottobre 1850.
Ministro dell'Agricoltura e del commercio
Carta in inglese del Regno di Sardegna (1720-1861)

Fra i primi incarichi affrontati da Camillo Benso ci fu il rinnovo del trattato commerciale con la Francia, improntato all'insegna del libero commercio.L'accordo, che non fu particolarmente vantaggioso per il Piemonte, dovette essere sostenuto da motivazioni politiche per essere approvato, benché Cavour ribadisse che ogni riduzione doganale fosse di per sé un beneficio.

Affrontata la materia dei trattati di commercio, il conte diede anche l'avvio ai negoziati con il Belgio e la Gran Bretagna. Con entrambi i Paesi ottenne e concesse estese facilitazioni doganali. I due trattati, conclusi il 24 gennaio e il 27 febbraio 1851 rispettivamente, furono il primo atto di vero liberismo commerciale compiuto da Cavour.

Questi due accordi, per i quali il conte ottenne un largo successo parlamentare, aprirono la strada ad una riforma generale dei dazi la cui legge fu promulgata il 14 luglio 1851. Intanto nuovi trattati commerciali erano stati firmati, fra marzo e giugno, con la Grecia, le città anseatiche, l'Unione doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi. Con 114 voti favorevoli e 23 contrari, la Camera approvò perfino un trattato analogo con l'Austria, concludendo quella prima fase della politica doganale di Cavour che realizzava per il Piemonte il passaggio dal protezionismo al libero scambio.

Nello stesso periodo a Cavour fu affidato anche l'incarico di Ministro della Marina e, come in situazioni analoghe, egli si distinse per le sue idee innovative aprendo un contrasto con gli ufficiali superiori, più che altro reazionari, che si opponevano finanche all'introduzione della navigazione a vapore. D'altro canto la truppa era molto indisciplinata e l'intenzione di Cavour sarebbe stata quella di far diventare la Marina sarda un corpo di professionisti come quella del Regno delle Due Sicilie.

Ministro delle Finanze
Il banchiere francese James de Rothschild (1792-1868). Cavour nel 1851 disimpegnò il Piemonte dalla sua stretta creditizia.
Urbano Rattazzi, alleato di Cavour nel Connubio.

Intanto, già dal 19 aprile 1851, Cavour aveva sostituito Giovanni Nigra (1798-1865) al Ministero delle Finanze, conservando tutti gli altri incarichi ministeriali. Il conte, durante la delicata fase del dibattito parlamentare per l'approvazione dei trattati commerciali con Gran Bretagna e Belgio, aveva annunciato di lasciare il governo se non si fosse abbandonata l'abitudine di affidare ad un deputato (in questo caso Nigra) l'incarico delle Finanze. C'erano stati per questo gravi dissensi fra D'Azeglio e Cavour che, alla fine, aveva ottenuto il ministero.

D'altronde il governo di Torino aveva disperato bisogno di liquidi, principalmente per pagare le indennità imposte dagli austriaci dopo la Prima guerra di indipendenza e Cavour, per la sua abilità e i suoi contatti sembrava l'uomo giusto per gestire la delicata situazione. Il Regno di Sardegna era già fortemente indebitato con i Rothschild dalla cui dipendenza il conte voleva sottrarre il Paese e, dopo alcuni tentativi falliti con la Bank of Baring, Cavour ottenne un importante prestito dalla più piccola Bank of Hambro.

Assieme a questo del prestito (3,6 milioni di sterline), Camillo Benso ottenne vari altri risultati. Riuscì a chiarire e sintetizzare la situazione effettiva del bilancio statale che, per quanto precaria, apparve migliore rispetto a quanto si pensasse; fece approvare su tutti gli enti morali laici ed ecclesiastici un'unica imposta del 4% del reddito annuo; ottenne l'imposta delle successioni; dispose per l'aumento di capitale della Banca Nazionale degli Stati Sardi aumentandone l'obbligo delle anticipazioni allo Stato e avviò la collaborazione tra finanza pubblica e iniziativa privata.

A tale riguardo accolse, nell'agosto 1851, le proposte di aziende britanniche per la realizzazione delle linee ferroviarie Torino-Susa e Torino-Novara, i cui progetti divennero legge il 14 giugno e l'11 luglio 1852 rispettivamente. Concesse all'armatore Raffaele Rubattino la linea di navigazione sovvenzionata fra Genova e la Sardegna, e a gruppi genovesi l'esercizio di miniere e saline in Sardegna. Fino a promuovere grandi progetti come l'istituzione a Genova della Compagnia Transatlantica o come la fondazione della società Ansaldo, futura fabbrica di locomotive a vapore.


Il banchiere francese James de Rothschild (1792-1868). Cavour nel 1851 disimpegnò il Piemonte dalla sua stretta creditizia.




Spinto ormai dal desiderio di raggiungere la carica di capo del governo e insofferente per la politica di D'Azeglio di alleanza con la destra clericale, Cavour all'inizio del 1852 prese l'iniziativa di stringere un'intesa, il cosiddetto "connubio", con il Centrosinistra di Urbano Rattazzi. Costui, con i voti convergenti dei deputati guidati da Cavour e di quelli del Centrosinistra, ottenne, l'11 maggio 1852, la presidenza della Camera del Parlamento Subalpino.

Il Presidente del Consiglio D'Azeglio, contrario come Vittorio Emanuele alla manovra politica di Cavour, diede le dimissioni, ottenendo puntualmente il reincarico dal re. Il governo che ne scaturì il 21 maggio 1852, assai debole, non vedeva più tra i suoi ministri Cavour, che D'Azeglio aveva sostituito con Luigi Cibrario.

In preparazione della ripresa della lotta politica Cavour partì per un viaggio in Europa. Al suo ritorno a Torino, il 4 novembre dello stesso 1852, appoggiato dagli uomini del "connubio" che rappresentavano ormai il liberalismo più moderno del Piemonte, forte di un ampio consenso, diveniva per la prima volta Presidente del Consiglio.
In Gran Bretagna e Francia (1852)

Prima della sua definitiva affermazione, Cavour partì da Torino il 26 giugno 1852 per un periodo di esperienze all'estero. L'8 giugno era a Londra, dove si interessò ai più recenti progressi dell'industria prendendo contatti con uomini d'affari, agricoltori e industriali, e visitando impianti e arsenali. Rimase nella capitale britannica fino al 5 agosto e partì poi per un viaggio nel Galles, nell'Inghilterra settentrionale, di cui visitò i distretti manifatturieri, e in Scozia. A Londra o nelle loro residenze di campagna ebbe vari incontri con esponenti politici britannici. Vide il Ministro degli Esteri Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli, Cobden, Lansdowne e Gladstone.

Colpito dalla grandezza imperiale della Gran Bretagna, Cavour proseguì il viaggio e passò La Manica alla volta di Parigi, dove giunse il 29 agosto 1852. Nella capitale francese Luigi Napoleone era presidente della Seconda Repubblica, alla quale darà poi fine proclamandosi (2 dicembre 1852) imperatore.

L'attenzione del conte, raggiunto a Parigi dall'alleato Rattazzi, si concentrò sulla nuova classe dirigente francese, con la quale prese contatti. Entrambi si recarono dal nuovo Ministro degli Esteri Drouyn de Lhuys e il 5 settembre pranzarono con il principe presidente Luigi Napoleone traendone già buone impressioni e grandi auspici per il futuro dell'Italia.

Cavour ripartì per Torino giungendovi il 16 ottobre 1852, dopo un'assenza di oltre tre mesi.


Urbano Rattazzi, alleato di Cavour nel Connubio.




Dopo pochi giorni dal ritorno di Cavour a Torino, il 22 ottobre 1852, D'Azeglio, a capo di un debole esecutivo che aveva scelto di continuare una politica anticlericale, diede le dimissioni.

Vittorio Emanuele II chiese a Cavour di formare un nuovo governo, a condizione che il conte negoziasse con lo Stato Pontificio le questioni rimaste aperte, prima fra tutte quella dell'introduzione in Piemonte del matrimonio civile. Cavour rispose che non avrebbe potuto cedere di fronte al papa e indicò in Cesare Balbo il successore di D'Azeglio. Balbo non trovò l'accordo con l'esponente di destra Revel e il re fu costretto a tornare da Cavour. Costui accettò allora di formare il nuovo governo il 2 novembre 1852, promettendo di far seguire alla legge del matrimonio civile il suo normale decorso parlamentare (senza porre cioè la fiducia).

Costituito due giorni dopo il suo primo governo, Cavour si adoperò con passione a favore del matrimonio civile che però fu respinto al Senato costringendo il conte a rinunciarvi.

Intanto il movimento repubblicano che faceva capo a Giuseppe Mazzini non smetteva di preoccupare Cavour: il 6 febbraio 1853 una sommossa scoppiò contro gli austriaci a Milano e il conte, temendo l'allargarsi del fenomeno al Piemonte, fece arrestare diversi mazziniani (fra cui Francesco Crispi). Tale decisione gli attirò l'ostilità della Sinistra, specie quando gli austriaci lo ringraziarono per gli arresti.

Quando però, il 13 febbraio, il governo di Vienna stabilì la confisca delle proprietà dei rifugiati lombardi in Piemonte, Cavour protestò energicamente richiamando l'ambasciatore sardo.
Le riforme della finanza e del codice penale

Obiettivo principale del primo governo Cavour fu la restaurazione finanziaria del Paese. Per tentare di raggiungere il pareggio il conte prese varie iniziative: innanzi tutto fu costretto a ricorrere nuovamente ai banchieri Rothschild poi, richiamandosi al sistema francese, sostituì alla dichiarazione dei redditi l'accertamento giudiziario, fece massicci interventi nel settore delle concessioni demaniali e dei servizi pubblici, e riprese la politica dello sviluppo degli istituti di credito.

D'altro canto il governo effettuò grandi investimenti nel settore delle ferrovie, proprio quando, grazie alla riforma doganale, le esportazioni stavano avendo un aumento considerevole. Nonostante ciò ci furono notevoli resistenze ad introdurre nuove imposte fondiarie e, in generale, nuove tasse che colpissero il ceto di cui era composto il Parlamento.

Cavour, in effetti, non riuscì mai a realizzare le condizioni politiche che gli consentissero una base finanziaria adeguata alle sue iniziative.

Il 19 dicembre 1853, si parlò di "quasi restaurate finanze", benché la situazione fosse più seria di quanto annunciato, anche per la crisi internazionale che precedette la Guerra di Crimea. Cavour di conseguenza si accordò ancora con i Rothschild per un prestito, ma riuscì anche a collocare presso il pubblico dei risparmiatori, con un netto successo politico e finanziario, una buona parte del debito contratto.

Il consenso politico non gli mancava. Alle elezioni dell'8 dicembre 1853 furono eletti 130 candidati dell'area governativa, 52 della sinistra e 22 della destra. Nonostante ciò, per replicare all'elezione di importanti politici avversari il conte sviluppò un'offensiva politica sull'ordinamento giudiziario che la crisi economica non gli permetteva di concentrare altrove. Fu deciso, anche per recuperare parte della Sinistra, di riprendere la politica anticlericale.

A tale riguardo il Ministro della Giustizia Urbano Rattazzi, all'apertura della V legislatura presentò una proposta di legge sulla modifica del codice penale. il nucleo della proposta consisteva in nuove pene previste per i sacerdoti che, abusando del loro ministero, avessero censurato le leggi e le istituzioni dello Stato. La norma fu approvata alla Camera a larga maggioranza (raccogliendo molti voti a Sinistra) e, con maggiore difficoltà, anche al Senato.

Furono successivamente adottate modifiche anche al codice di procedura penale e fu ultimato il percorso per l'approvazione del codice di procedura civile.

Nel 1853 si sviluppò una crisi europea scaturita da una disputa religiosa fra l'Impero ottomano, già in declino, e la Russia che aspirava alla protezione dei cristiani fra le popolazioni turche dei Balcani. Queste aspirazioni provocarono l'ostilità del governo inglese che sospettava che la Russia volesse conquistare Costantinopoli e interrompere la via terrestre per l'India britannica. La Francia a sua volta, desiderosa di interrompere il suo isolamento, si schierò con la Gran Bretagna.

Il 1º novembre 1853 la Russia dichiarò guerra all'Impero ottomano e il 28 marzo 1854 la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Russia. La questione, per le opportunità politiche che potevano presentarsi, cominciò ad interessare Cavour. Costui, nell'aprile 1854, rispose alle richieste dell'ambasciatore inglese, Sir James Hudson, affermando che il Regno di Sardegna sarebbe intervenuto nella guerra se anche l'Austria avesse attaccato la Russia, di modo da non esporre il Piemonte all'esercito asburgico.

La soddisfazione degli inglesi fu evidente, ma per tutta l'estate del 1854 l'Austria rimase neutrale. Infine, il 29 novembre 1854, il Ministro degli Esteri britannico Clarendon scrisse ad Hudson chiedendogli di fare di tutto per assicurarsi un corpo di spedizione piemontese. Un incitamento superfluo, poiché Cavour era già arrivato alla conclusione che le richieste inglesi e quelle francesi, queste ultime fatte all'inizio della crisi a Vittorio Emanuele II, dovevano essere soddisfatte. Decise pertanto di optare per l'intervento sollevando le perplessità del Ministro della Guerra La Marmora e del Ministro degli Esteri Giuseppe Dabormida (1799-1869) che si dimise.

Assumendo anche la carica di Ministro degli Esteri, il conte, il 26 gennaio 1855, firmò l'adesione finale del Regno di Sardegna al trattato anglo-francese. Il Piemonte avrebbe fornito 15.000 uomini e le potenze alleate avrebbero garantito l'integrità del Regno di Sardegna da un eventuale attacco austriaco. Il 4 marzo 1855 Cavour dichiarò guerra alla Russia e il 25 aprile il contingente piemontese salpò da La Spezia per la Crimea dove arrivò ai primi di maggio. Il Piemonte avrebbe raccolto i benefici della spedizione con la Seconda guerra di indipendenza, quattro anni dopo.


Cavour accolse l'invito di Gran Bretagna e Francia a partecipare alla Guerra di Crimea. Il corpo di spedizione piemontese si distinse nella Battaglia della Cernaia (nel dipinto), consentendo di porre la Questione italiana a livello europeo.




Con l'intento di avvicinarsi alla Sinistra e ostacolare la Destra conservatrice che andava guadagnando terreno a causa della crisi economica, il governo Cavour, il 28 novembre 1854 presentò alla Camera la Legge sui conventi. La norma, nell'ottica del liberalismo anticlericale, prevedeva la soppressione degli ordini religiosi non dediti all'insegnamento o all'assistenza dei malati. Durante il dibattito parlamentare vennero attaccati, anche da Cavour, soprattutto gli ordini mendicanti come nocivi alla moralità del Paese e contrari alla moderna etica del lavoro.

La forte maggioranza alla Camera del conte dovette affrontare l'opposizione del clero, del re e soprattutto del Senato che in prima istanza bocciò la legge. Cavour allora si dimise (27 aprile 1855) aprendo una crisi costituzionale chiamata crisi Calabiana dal nome del vescovo di Casale Luigi di Calabiana, senatore e avversario del progetto di legge.


Papa Pio IX, che scomunicò Cavour dopo l'approvazione della Legge sui conventi.




Dopo qualche giorno dalle dimissioni, vista l'impossibilità a formare un nuovo esecutivo, il 4 maggio 1855, Cavour fu reintegrato dal re nella carica di Presidente del Consiglio. Al termine di giorni di discussioni nei quali Cavour ribadì «la società attuale ha per base economica il lavoro», la legge fu approvata con un emendamento che lasciava i religiosi nei conventi fino all'estinzione naturale delle loro comunità. A seguito dell'approvazione della Legge sui conventi, il 26 luglio 1855 Papa Pio IX emanò la scomunica contro coloro che avevano proposto, approvato e ratificato il provvedimento, Cavour e Vittorio Emanuele compresi.

La Guerra di Crimea, vittoriosa per gli alleati, ebbe fine nel 1856 con il Congresso di Parigi al quale partecipò anche l'Austria.

Cavour non ottenne compensi territoriali per la partecipazione al conflitto, ma una seduta fu dedicata espressamente a discutere il problema italiano. In questa occasione, l'8 aprile, il Ministro degli Esteri britannico Clarendon attaccò pesantemente la politica illiberale sia dello Stato Pontificio, sia del Regno delle due Sicilie, sollevando le proteste del ministro austriaco Buol.

Ben più moderato, lo stesso giorno, fu il successivo intervento di Cavour, incentrato sulla denuncia della permanenza delle truppe austriache nella Romagna pontificia.

Fatto sta che per la prima volta la questione italiana venne considerata a livello europeo come una situazione che richiedeva modifiche a fronte di legittime rimostranze della popolazione.

Fra Gran Bretagna, Francia e Piemonte i rapporti risultavano ottimi. Tornato a Torino, per l'esito ottenuto a Parigi, Cavour, il 29 aprile 1856, ottenne la più alta onorificenza concessa da Casa Savoia: il Collare dell'Annunziata.Quello stesso Congresso, tuttavia, avrebbe portato il conte a prendere importanti decisioni, tali da dover fare una scelta: con la Francia o con la Gran Bretagna.

Si aprì, infatti, a seguito delle decisioni di Parigi, la questione dei due Principati danubiani. La Moldavia e la Valacchia secondo Gran Bretagna, Austria e Turchia avrebbero dovuto rimanere divise e sotto il controllo ottomano. Per Francia, Prussia e Russia, invece, si sarebbero dovute unire (nella futura Romania) e costituirsi come Stato indipendente. Quest'ultimo particolare richiamò l'attenzione di Cavour e il Regno di Sardegna si schierò per l'unificazione.

La reazione della Gran Bretagna contro la posizione assunta dal Piemonte fu molto aspra. Ma Cavour aveva già deciso: fra il dinamismo della politica francese e il conservatorismo di quella britannica, il conte aveva scelto la Francia.

D'altra parte l'Austria andava sempre più isolandosi e a consolidare il fenomeno contribuì un episodio che il conte seppe sfruttare. Il 10 febbraio 1857 il governo di Vienna accusò la stampa piemontese di fomentare la rivolta contro l'Austria e il governo Cavour di correità. Il conte respinse ogni accusa e il 22 marzo Buol richiamò il suo ambasciatore, seguito il giorno dopo da un'analoga misura del Piemonte. Accadde così che l'Austria elevò una questione di stampa a motivo della rottura delle relazioni con il piccolo Regno di Sardegna, esponendosi ai giudizi negativi di tutta la diplomazia europea, compresa quella inglese, mentre in Italia si animavano maggiormente le simpatie per il Piemonte.


Il Congresso di Parigi. Il primo delegato a sinistra è Cavour, il terzo Buol. Fra i personaggi al di qua del tavolo il terzo seduto è Clarendon.




Il miglioramento dell'economia e il calo dei consensi
Giuseppe Mazzini, di cui Cavour combatteva le idee repubblicane.

A partire dal 1855 si registrò, d'altronde, un miglioramento delle condizioni economiche del Piemonte, grazie al buon raccolto cerealicolo e alla riduzione del deficit della bilancia commerciale. Incoraggiato da questi risultati, Cavour rilanciò la politica ferroviaria dando il via, tra l'altro, nel 1857 ai lavori del traforo del Fréjus.

Il 16 luglio 1857 venne dichiarata anticipatamente la chiusura della V Legislatura, in una situazione che, nonostante il miglioramento dell'economia, si presentava sfavorevole a Cavour. Si era diffuso, infatti, un malcontento generato dall'accresciuto carico fiscale, dai sacrifici fatti per la Guerra di Crimea e dalla mobilitazione antigovernativa del mondo cattolico. Il risultato fu che alle elezioni del 15 novembre 1857 il centro liberale di Cavour conquistò 90 seggi (rispetto ai 130 della precedente legislatura), la destra 75 (rispetto ai 22) e la sinistra 21 (rispetto ai 52).
Il successo clericale superò le più pessimistiche previsioni di area governativa. Cavour decise di rimanere al suo posto e la stampa liberale si scagliò contro la destra denunciando pressioni improprie del clero sugli elettori. Ci fu una verifica parlamentare e per alcuni seggi assegnati vennero ripetute le elezioni, che invertirono la tendenza: il centro liberale passò a 105 seggi e la destra a 60.

Lo scossone politico provocò comunque il sacrificio di Rattazzi, in precedenza passato agli Interni. Costui, soprattutto, era inviso alla Francia per non essere riuscito ad arrestare Mazzini, giudicato pericoloso per la vita Napoleone III. Rattazzi il 13 gennaio 1858 si dimise e Cavour assunse l'interim dell'Interno.


Giuseppe Mazzini, di cui Cavour combatteva le idee repubblicane.



Suscitata l'attenzione delle potenze con il Congresso di Parigi sulla questione italiana, per affrontarla era necessario l'appoggio della Francia di Napoleone III, conservatore all'interno, ma sostenitore di una politica estera di grandezza.

Dopo una lunga serie di trattative, funestate dall'attentato di Felice Orsini a Napoleone III, si arrivò finalmente, nel luglio 1858, agli accordi segreti di Plombières fra Cavour e l'imperatore francese ai danni dell'Impero austriaco.

Tale intesa verbale prevedeva che, dopo una guerra che si auspicava vittoriosa contro l'Austria, la penisola italiana sarebbe stata divisa in quattro stati principali legati in una Confederazione presieduta dal papa: il Regno dell'Alta Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele, il Regno dell'Italia centrale, lo Stato Pontificio limitato a Roma e al territorio circostante e il Regno delle Due Sicilie. Firenze e Napoli, avvenimenti locali permettendo, sarebbero passate nella sfera d'influenza francese.

Gli accordi di Plombières furono ratificati l'anno successivo dall'Alleanza sardo-francese, secondo la quale in caso di attacco militare provocato da Vienna, la Francia sarebbe intervenuta in difesa del Regno di Sardegna con il compito di liberare dal dominio austriaco il Lombardo-Veneto per cederlo al Piemonte. In compenso la Francia avrebbe ricevuto i territori di Nizza e della Savoia, quest'ultima culla della dinastia sabauda e, come tale, cara a Vittorio Emanuele II.

Dopo la firma dell'alleanza, Cavour escogitò una serie di provocazioni militari al confine con l'Austria che, allarmata, gli lanciò un ultimatum chiedendogli di smobilitare l'esercito. Il conte rifiutò e l'Austria aprì le ostilità contro il Piemonte il 26 aprile 1859, facendo scattare le condizioni dell'Alleanza sardo-francese.

Tuttavia i movimenti minacciosi dell'esercito prussiano convinsero Napoleone III, quasi con un atto unilaterale, a firmare un armistizio con l'Austria a Villafranca l'11 luglio 1859, poi ratificato dalla Pace di Zurigo, stipulata l'11 novembre. Le clausole del trattato prevedevano che a Vittorio Emanuele II sarebbe andata la sola Lombardia e che per il resto tutto sarebbe tornato come prima.

Cavour, deluso e amareggiato dalle condizioni dell'armistizio, dopo accese discussioni con Napoleone III e Vittorio Emanuele, decise di dare le dimissioni da Presidente del Consiglio, provocando la caduta del governo da lui guidato il 12 luglio 1859.


L'Imperatore Napoleone III di Francia (nel dipinto) e Cavour fomentarono l'Austria riuscendo a far scoppiare la guerra nel 1859.




Nizza e Savoia per Modena, Parma, Romagna e Toscana
Una carta inglese dell'Italia con le date dell'unificazione

Già durante la guerra i governi e le forze dei piccoli Stati italiani dell'Italia centro-settentrionale e della Romagna pontificia abbandonarono i loro posti e dovunque si installarono autorità provvisorie filo-sabaude.

Dopo la Pace di Zurigo, però, si giunse ad una fase di stallo, poiché i governi provvisori si rifiutavano di restituire il potere ai vecchi regnanti, né il governo di La Marmora aveva il coraggio di proclamare le annessioni dei territori al Regno di Sardegna. Il 22 dicembre 1859 Vittorio Emanuele II si rassegnò, così, a richiamare Cavour che nel frattempo aveva ispirato la creazione del partito di Unione Liberale.
Il conte, rientrato alla presidenza del Consiglio dei Ministri il 21 gennaio 1860, si trovò in breve di fronte ad una proposta francese di soluzione della questione dei territori liberati: annessione al Piemonte dei ducati di Parma e Modena, controllo sabaudo della Romagna pontificia, regno separato in Toscana sotto la guida di un esponente di Casa Savoia e cessione di Nizza e Savoia alla Francia.
In caso di rifiuto della proposta il Piemonte avrebbe dovuto affrontare da solo la situazione di fronte all'Austria, "a suo rischio e pericolo".

Rispetto agli accordi dell'alleanza sardo-francese questa proposta di soluzione sostituiva per il Piemonte l'annessione del Veneto che non si era potuto liberare dall'occupazione austriaca.

Stabilita, di fatto, l'annessione di Parma, Modena e Romagna, Cavour, forte dell'appoggio della Gran Bretagna, sfidò la Francia sulla Toscana, organizzando delle votazioni locali sull'alternativa fra l'unione al Piemonte e la formazione di un nuovo Stato. Il referendum si tenne l'11 e il 12 marzo 1860, con risultati che legittimarono l'annessione della Toscana al Regno di Sardegna.

Il governo francese reagì con grande irritazione sollecitando la cessione della Savoia e di Nizza che avvenne con la firma del relativo trattato il 24 marzo 1860. In cambio di queste due province il Regno di Sardegna si trasformò in una nazione assai più omogenea del vecchio Piemonte, acquisendo oltre alla Lombardia, anche l'attuale Emilia-Romagna e la Toscana.

Cavour era al corrente che la Sinistra non aveva abbandonato l'idea di una spedizione in Italia meridionale e che Garibaldi, circondato da personaggi repubblicani e rivoluzionari, era in contatto a tale scopo con Vittorio Emanuele II. Il conte considerava rischiosa l'iniziativa alla quale si sarebbe decisamente opposto, ma il suo prestigio era stato scosso dalla cessione di Nizza e Savoia e non si sentiva abbastanza forte.

Cavour riuscì, comunque, attraverso Giuseppe La Farina a seguire le fasi preparatorie dell'Impresa dei Mille, la cui partenza da Quarto fu meticolosamente sorvegliata dalle autorità piemontesi. Ad alcune voci sulle intenzioni di Garibaldi di sbarcare nello Stato Pontificio, il conte, preoccupatissimo per la eventuale reazione della Francia, alleata del papa, dispose il 10 maggio 1860 l'invio di una nave nelle acque della Toscana "per arrestarvi Garibaldi".

Il generale invece aveva puntato a Sud e dopo il suo sbarco a Marsala (11 maggio 1860) Cavour inviò in Sicilia La Farina allo scopo di mantenere i contatti con Garibaldi e controllare, per quanto si poteva, la situazione.
In campo internazionale, intanto, le potenze straniere, intuendo la complicità del Regno di Sardegna nell'impresa, protestarono con il governo di Torino che poté affrontare con una certa tranquillità la situazione data la grave crisi finanziaria dell'Austria, in cui era anche ripresa la rivoluzione ungherese.

Napoleone III, d'altra parte, si attivò subito nel ruolo di mediatore e, per la pace, propose a Cavour la separazione della Sicilia dal regno, la promulgazione della costituzione a Napoli e a Palermo e l'alleanza fra Regno di Sardegna e Regno delle due Sicilie.
Immediatamente il regime borbonico si adeguò alla proposta francese instaurando un governo liberale e proclamando la costituzione. Tale situazione mise in grave difficoltà Cavour per il quale l'alleanza era irrealizzabile. Nello stesso tempo non poteva scontentare Francia e Gran Bretagna che premevano almeno per una tregua.
Il governo piemontese decise allora che il re avrebbe mandato una lettera a Garibaldi intimandolo di non attraversare lo Stretto di Messina. Il 22 luglio 1860 Vittorio Emanuele inviò la lettera voluta da Cavour, facendola però seguire da un messaggio personale nel quale smentiva la lettera ufficiale.

Garibaldi a Napoli
L'arrivo di Giuseppe Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860). Evento che Cavour tentò di prevenire organizzando una sommossa filopiemontese che fallì.

Il 6 agosto 1860 Cavour informò i delegati del Regno delle due Sicilie del rifiuto di Garibaldi di concedere la tregua dichiarando esauriti i mezzi di conciliazione e rinviando ad un futuro incerto i negoziati per l'alleanza.

Negli stessi giorni il conte, nel timore di far precipitare i rapporti con la Francia, sventò una spedizione militare di Mazzini che dalla Toscana doveva muovere contro lo Stato Pontificio. A seguito di questi avvenimenti Cavour si dispose a fare tutti i suoi sforzi per impedire che il movimento per l'unità d'Italia diventasse rivoluzionario. In questa ottica cercò, inutilmente, di prevenire il generale a Napoli organizzando una spedizione clandestina di armi per una rivolta filopiemontese, che non ci fu. Viceversa Garibaldi entrò trionfalmente nella capitale borbonica il 7 settembre 1860 fugando, per l'amicizia che serbava al re, i timori di Cavour.
L'annessione di Marche, Umbria e Regno delle due Sicilie

Fallito il progetto di un successo moderato a Napoli il conte, con l'obiettivo di ridare a Casa Savoia una parte attiva nel movimento nazionale, decise l'invasione delle Marche e dell'Umbria pontificie. Ciò avrebbe anche impedito l'avanzata di Garibaldi su Roma e uno scontro fatale con la Francia. Bisognava però preparare Napoleone III agli avvenimenti e convincerlo che l'invasione piemontese dello Stato Pontificio fosse il male minore. Per la delicata missione il conte scelse Farini e Cialdini.

Il timore di un attacco austriaco al Piemonte, tuttavia, fece precipitare gli eventi e Cavour inviò un ultimatum allo Stato Pontificio intimandogli di licenziare i militari stranieri, seguito, l'11 settembre 1860, dalla violazione dei confini. La Francia reagì duramente in difesa del Papa, ma senza effetti pratici. Intanto la crisi con Garibaldi si era improvvisamente aggravata, poiché il generale aveva proclamato il 10 che avrebbe consegnato al re i territori da lui conquistati solo dopo aver occupato Roma. L'annuncio aveva anche ottenuto il plauso di Mazzini.

La vittoria nella Battaglia di Castelfidardo e il conferimento al governo di un prestito di 150 milioni per le spese militari e il trionfo dell'indipendenza italiana, ridiedero però forza e fiducia a Cavour, mentre Garibaldi, pur vittorioso nella Battaglia del Volturno, esauriva la sua spinta verso Roma.

A questo punto, il "prodittatore" Giorgio Pallavicino Trivulzio, venendo incontro ai desideri del conte, indisse a Napoli il plebiscito per l'annessione immediata al Regno sabaudo, seguito a Palermo dal suo omologo Antonio Mordini. Le votazioni si tennero il 21 ottobre 1860, sancendo l'unione del Regno delle due Sicilie a quello di Vittorio Emanuele II.

All'inizio dello stesso mese di ottobre Cavour si era così espresso:
« Non sarà l'ultimo titolo di gloria per l'Italia d'aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà all'indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d'un Cromwell, ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario […]. Ritornare […] alle dittature rivoluzionarie d'uno o più, sarebbe uccidere sul nascere la libertà legale che vogliamo inseparabile dalla indipendenza della nazione »

(Cavour, 2 ottobre 1860, da Romeo, Vita di Cavour, Bari, 2004, p. 489.)

Il 4 e il 5 novembre 1860 anche in Umbria e nelle Marche si votava e si decideva per l'unione all'Italia.


L'arrivo di Giuseppe Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860). Evento che Cavour tentò di prevenire organizzando una sommossa filopiemontese che fallì.




I rapporti fra Stato e Chiesa

Fermati i disegni di Garibaldi su Roma, a Cavour restava ora il problema di decidere su cosa fare di ciò che rimaneva dello Stato Pontificio (approssimativamente il Lazio attuale), tenendo conto che un attacco a Roma sarebbe stato fatale per le relazioni con la Francia.

Il progetto del conte, avviato dal novembre 1860 e perseguito fino alla sua morte, fu quello di proporre al papa la rinuncia al potere temporale in cambio della rinuncia da parte dello Stato al corrispettivo, il Giurisdizionalismo. Si sarebbe perciò adottato il principio di "Libera Chiesa in libero Stato", ma le trattative naufragarono sulla fondamentale intransigenza di Pio IX.

Il governo Cavour del Regno d'Italia (1861)

Dal 27 gennaio al 3 febbraio 1861 si tennero le elezioni per il primo Parlamento italiano unitario. Oltre 300 dei 443 seggi della nuova Camera andarono alla maggioranza governativa. L'opposizione ne conquistò un centinaio, ma fra loro non comparivano rappresentanti della Destra poiché i clericali avevano aderito all'invito di non eleggere e di non farsi eleggere in un Parlamento che aveva leso i diritti del pontefice.

Il 18 febbraio venne inaugurata la nuova sessione nella quale sedettero per la prima volta rappresentanti piemontesi, lombardi, siciliani, toscani, emiliani e napoletani insieme. Il 17 marzo il Parlamento proclamò il Regno d'Italia e Vittorio Emanuele suo re.

Cavour, il 22 marzo veniva confermato alla guida del governo, dopo che il re aveva dovuto rinunciare a Ricasoli. Il conte, che tenne per sé anche gli Esteri e la Marina, il 25 affermò in parlamento che Roma sarebbe dovuta diventare capitale d'Italia.
Lo scontro con Garibaldi

L'episodio più tumultuoso della vita politica di Cavour, se si esclude l'incidente con Vittorio Emanuele dopo l'Armistizio di Villafranca, fu il suo scontro con Garibaldi dell'aprile 1861.

Oggetto del contendere, l'esercito di volontari garibaldini del Sud del quale Cavour volle evitare il trasferimento al Nord nel timore che sarebbe divenuto preda dei radicali. Per cui, il 16 gennaio 1861, fu decretato lo scioglimento dell'Esercito meridionale a Napoli e, nonostante le vibrate proteste del suo comandante Giuseppe Sirtori, Cavour fu irremovibile.

In difesa del suo esercito, Garibaldi, il 18 aprile 1861, pronunciò un memorabile discorso alla Camera accusando «la fredda e nemica mano di questo Ministero [Cavour]» di aver voluto provocare una «guerra fratricida». Il conte reagì con violenza chiedendo, invano, al presidente della Camera Rattazzi di richiamare all'ordine il generale. La seduta fu sospesa e Nino Bixio tentò nei giorni successivi una riconciliazione che non si compì mai del tutto.


Il 29 maggio Cavour ebbe un malore, attribuito dal suo medico curante ad una delle crisi malariche che lo colpivano periodicamente da quando -in gioventù- aveva contratto la malaria nelle risaie di famiglia del vercellese. In questa occasione tutte le cure praticate non ebbero effetto, tanto che il paziente chiese di vedere un sacerdote francescano suo amico, padre Giacomo da Poirino.

Costui aveva promesso in passato di somministrare a Cavour l'estrema unzione ignorando la scomunica e così fece. Il Presidente del Consiglio però in punto di morte non ritrattò le sue scelte anticlericali . Per questo motivo, padre Giacomo, dopo aver riferito i fatti alle autorità religiose, fu sospeso a divinis.

Il 6 giugno 1861, a meno di tre mesi dalla proclamazione del Regno d'Italia, Cavour moriva a Torino nel palazzo di famiglia. La sua fine suscitò immenso cordoglio, anche perché del tutto inattesa, ed ai funerali vi fu straordinaria partecipazione.

Secondo l'amico Michelangelo Castelli le ultime parole del conte furono: "L'Italia è fatta - tutto è salvo", così come le intese al capezzale Luigi Carlo Farini.

A Cavour succedette come presidente del Consiglio Bettino Ricasoli.

Cavour è stato ricordato in molti modi. Due città italiane hanno aggiunto il suo nome a quello originario: Grinzane Cavour, di cui Camillo Benso fu sindaco, e Sogliano Cavour per celebrare la ritrovata unità nazionale. Gli sono state dedicate numerose vie e piazze e numerose statue.

Nel 2010 è stata coniata una moneta da 2 euro commemorativa che lo raffigura.

La tomba di Cavour si trova a Santena e consiste in un semplice loculo posto nella cripta sotto la cappella di famiglia della chiesa dei SS. Pietro e Paolo; l'accesso avviene tuttavia dall'esterno della chiesa (piazza Visconti Venosta, su cui si affaccia anche la facciata secondaria della Villa Cavour). Lo statista è sepolto per sua espressa volontà accanto all'amato nipote Augusto Benso di Cavour, figlio di suo fratello Gustavo e morto eroicamente a 20 anni nella battaglia di Goito. La cripta è stata dichiarata monumento nazionale nel 1911.

La nave da battaglia Conte di Cavour e la portaerei Cavour (CVH-550) sono state così battezzate in suo onore.

A Cavour è dedicato un tipo di caramella di liquirizia aromatizzata alla violetta: le cosiddette sénateurs.

Politica interna

Benché elogiata da numerosi studiosi, la figura di Cavour è stata altrettanto oggetto di varie critiche.

Nel 1853, anno in cui si ebbe una grande crisi cerealicola nella penisola, Cavour, grande proprietario di mulini, anziché proibire il commercio del grano all'estero, ne avrebbe concesso l'esportazione realizzando, secondo alcuni scrittori come Lorenzo Del Boca[91] e Angela Pellicciari,ingenti guadagni a fini personali e di altri pochi, privando dei raccolti il popolo piemontese. Al riguardo lo storico Rosario Romeo parla invece di dicerie ai danni del conte da parte di giornali popolari dell'epoca. Fatto sta che la politica delle esportazioni del grano provocò un malessere generalizzato e disordini ad Arona, Pallanza e Genova. Alcuni sindaci si mobilitarono contro il governo di Cavour, tra cui i 12 del mandamento di Intra e quello di Cava Manara che dichiarò: «Se l'esportazione continua per un mese ancora, i prestinai di questo luogo non sono più in grado di rinvenire un sacco di frumento per farne del pane».

La classe popolare arrivò a protestare fin sotto la villa di Cavour. I Carabinieri intervennero e ci furono arresti ed episodi di violenza ai danni dei manifestanti. I giornali L'imparziale e La voce della libertà (tra i principali accusatori della manovra del governo sul grano) furono criticati per aver istigato il popolo a rivoltarsi e furono trascinati in tribunale ma gli imputati furono assolti.

Angelo Brofferio, noto rivale politico di Cavour, mosse pesanti critiche sulla sua attività, dicendo che sotto il suo governo «ingrassano illecitamente i monopolisti, i borsaiuoli, i telegrafisti e gli speculatori sulla pubblica sostanza, mentre geme, soffre, e piange l'universalità dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte». Brofferio inoltre definì «un atto barbaro» l'aggressione delle forze dell'ordine ai danni dei contestatori. Al termine del 1853, in Val d'Aosta, si registrarono le rivolte più estese. Oltre due mila valligiani furono coinvolti in tumulti e il governo procedette a 530 arresti in totale. Dei rivoltosi fermati un'ottantina furono processati e di questi 9 subirono condanne.
Il conflitto con Mazzini

Giuseppe Mazzini, che dopo la sua attività cospirativa degli anni 1827-1830 fu esiliato dal governo piemontese a Ginevra, fu uno strenuo oppositore della guerra di Crimea, che costò un'ingente perdita di soldati al regno sardo. Egli rivolse un appello ai militari in partenza per il conflitto:
« Quindicimila tra voi stanno per essere deportati in Crimea. Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Voi non avrete onore di battaglie. Morrete, senza gloria, senza aureola, di splendidi fatti da tramandarsi per voi, conforto ultimo ai vostri cari. Morrete per colpa di governi e capi stranieri. Per servire un falso disegno straniero, l'ossa vostre biancheggeranno calpestate dal cavallo del cosacco, su terre lontane, né alcuno dei vostri potrà raccoglierle e piangervi sopra. Per questo io vi chiamo, col dolore dell'anima, "deportati". »



Quando nel 1858, Napoleone III scampò all'attentato teso da Felice Orsini e Giovanni Andrea Pieri, il governo di Torino incolpò Mazzini (Cavour lo avrebbe definito "il capo di un'orda di fanatici assassini"oltreché "un nemico pericoloso quanto l'Austria"),[98] poiché i due attentatori avevano militato nel suo Partito d'Azione.

Secondo Denis Mack Smith, Cavour aveva in passato finanziato i due rivoluzionari a causa della loro rottura con Mazzini e, dopo l'attentato a Napoleone III e la conseguente condanna dei due, alla vedova di Orsini fu assicurata una pensione. Cavour al riguardo fece anche pressioni politiche sulla magistratura per far giudicare e condannare la stampa radicale.

Egli, inoltre, favorì l'agenzia Stefani con fondi segreti sebbene lo Statuto vietasse privilegi e monopoli ai privati. Così l'agenzia Stefani, forte delle solide relazioni con Cavour divenne, secondo il saggista Gigi Di Fiore, un fondamentale strumento governativo per il controllo mediatico nel Regno di Sardegna.

Mazzini, intanto, oltre ad aver condannato il gesto di Orsini e Pieri, espose un attacco nei confronti del primo ministro, pubblicato sul giornale "Italia del popolo":
« Voi avete inaugurato in Piemonte un fatale dualismo, avete corrotto la nostra gioventù, sostituendo una politica di menzogne e di artifici alla serena politica di colui che desidera risorgere. Tra voi e noi, signore, un abisso ci separa. Noi rappresentiamo l'Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi desideriamo soprattutto l'unità nazionale, voi l'ingrandimento territoriale »

Il ruolo di Cavour durante il Risorgimento ha suscitato varie dispute. Sebbene sia considerato uno dei padri della patria assieme a Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Mazzini, Cavour non era interessato ad unire l'Italia ma solamente ad allargare i confini del regno dei Savoia (opinione sostenuta anche dallo stesso Mazzini).Non vi è ancora chiarezza sul ruolo di Cavour nell'annessione del regno delle due Sicilie. Secondo lo scrittore Arrigo Petacco, il primo ministro piemontese era contrario alla conquista del regno borbonico e cercò persino di stipulare un patto con Francesco II che prevedeva l'istituzione di un stato federale, ma il sovrano borbonico si sarebbe rifiutato.

Altri scrittori come Del Boca e Aldo Servidio sostengono invece che nel 1856, quattro anni prima della Spedizione dei Mille, Cavour e il conte di Clarendon ebbero contatti per architettare rivolte antiborboniche nelle Due Sicilie, aneddoto sostenuto anche dallo storico inglese George Macaulay Trevelyan, autore di diverse opere su Garibaldi. Cavour avrebbe ordinato a Carlo Pellion di Persano di prendere contatti a Napoli con l'avvocato Edwin James, uomo di fiducia del governo inglese.

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MessaggioInviato: Mar Mag 17, 2011 13:41    Oggetto: Rispondi citando




GIUSEPPE MAZZINI

« Ebbi a lottare con il più grande dei soldati, Napoleone. Giunsi a mettere d'accordo tra loro imperatori, re e papi. Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini. »

(Klemens von Metternich, Memorie, Ed. Bonacci, 1991)

Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872) è stato un patriota, politico e filosofo italiano nato nella Repubblica Ligure, annessa da pochi giorni al Primo Impero Francese.

Le sue idee e la sua azione politica contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano; le condanne subite in diversi tribunali d'Italia lo costrinsero però alla latitanza fino alla morte. Le teorie mazziniane furono di grande importanza nella definizione dei moderni movimenti europei per l'affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato.

Giuseppe Mazzini viene considerato, con Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, conte di Cavour, uno dei padri della patria, che egli esaltò e diffuse nei sui scritti come il luogo di libertà per eccellenza:
« La patria è la casa dell'uomo, non dello schiavo »

(Giuseppe Mazzini, Ai giovani d'Italia)

LA FAMIGLIA E LA GIOVINEZZA

Nato da Giacomo (medico e professore di anatomia, originario di Chiavari e personaggio attivo nella politica ai tempi della Repubblica Ligure ed in epoca napoleonica) e da Maria Drago di Pegli (fervente giansenista), veniva chiamato "Pippo" dai genitori e dalle tre sorelle.

A 14 anni si iscrisse all'Università degli Studi di Genova in medicina, come voleva suo padre, ma – stando a un racconto della madre – vi rinunciò dopo essere svenuto al primo esperimento di necroscopia.Si iscrisse allora a legge, dove si segnalò per la sua ribellione ai regolamenti di stampo religioso che imponevano di andare a messa e di confessarsi; a 15 anni fu arrestato perché, proprio in chiesa, si rifiutò di lasciare il posto ai cadetti del Collegio Reale.

Lo appassionava la letteratura: si innamorò di Goethe, Shakespeare e Foscolo, restando così colpito dallo Jacopo Ortis da volersi vestire sempre di nero.Nel 1821 ebbe il suo trauma rivelatore: a Genova passarono i Federati piemontesi reduci dal loro tentativo di rivolta e così, nel giovane Mazzini, si affacciò per la prima volta il pensiero «che si poteva, e quindi si doveva, lottare per la libertà della Patria».

Iniziò ad esercitare la professione nello studio di un avvocato, ma l'attività che lo impegnava maggiormente era quella di giornalista presso l'Indicatore genovese, sul quale Mazzini iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici; la censura lasciò fare per un po' ma poi soppresse il giornale.

Nel 1826 scrisse il primo saggio letterario, Dell'amor patrio di Dante, pubblicato poi nel 1837. Il 6 aprile del 1827 ottenne la laurea in diritto civile e in diritto canonico (in utroque iure). Nello stesso anno divenne membro della carboneria, della quale divenne segretario in Valtellina.



Monumento a Giuseppe Mazzini, accanto a Palazzo Doria-Spinola, sede della Prefettura, a piazza Corvetto (Genova)


L'ATTIVIT'A' COSPIRATIVA
La sua attività rivoluzionaria lo costrinse a rifugiarsi in Francia, a Marsiglia, dove organizzò nel 1831 un nuovo movimento politico chiamato Giovine Italia. Il motto dell'associazione era Dio e popolo e il suo scopo era l'unione degli stati italiani in un'unica repubblica con un governo centrale quale sola condizione possibile per la liberazione del popolo italiano dagli invasori stranieri. Il progetto federalista infatti, secondo Mazzini, poiché senza unità non c'è forza, avrebbe fatto dell'Italia una nazione debole, naturalmente destinata a essere soggetta ai potenti stati unitari a lei vicini: il federalismo inoltre avrebbe reso inefficace il progetto risorgimentale, facendo rinascere quelle rivalità municipali, ancora vive, che avevano caratterizzato la peggiore storia dell'Italia medioevale.L'obiettivo repubblicano e unitario avrebbe dovuto essere raggiunto con un'insurrezione popolare condotta attraverso una guerra per bande.

Durante l'esilio in Francia, Mazzini ebbe una relazione con la nobildonna mazziniana e repubblicana Giuditta Bellerio Sidoli, vedova di Giovanni Sidoli, giovane e ricco patriota di Montecchio che aveva sposato all'età di 16 anni. Giuditta aveva condiviso con il marito la fede politica che, portandolo a cospirare contro la corte estense, aveva costretto la coppia a esiliare in Svizzera. Nel 1829 Giovanni colpito da una grave malattia polmonare morì a Montpellier. Poiché la giovane vedova non aveva ricevuto alcuna condanna ritornò a Reggio Emilia presso la famiglia del marito con i suoi quattro figli: Maria, Elvira, Corinna e Achille. Dopo il fallimento dei moti del 1831 Giuditta fu costretta a fuggire in Francia dove conobbe Mazzini a cui si legò sentimentalmente. Nel 1832 nacque Joseph Démosthène Adolphe Aristide Bellerio Sidoli detto Adolphe, figlio di Mazzini quasi sicuramente, che, lasciato dalla madre in affidamento, morirà a soli tre anni nel 1835.

Rifugiatosi in Svizzera nel 1834 nella cittadina di Grenchen, nel canton Soletta, vi rimase sino a quando fu arrestato dalla polizia cantonale che gli ingiunse di lasciare la Confederazione entro 24 ore. Per impedirne l'allontanamento l'assemblea dei cittadini di Grenchen conferì al giovane profugo la cittadinanza con 122 voti a favore contro 22 contrari.

La cittadinanza fu invalidata dal governo cantonale e Mazzini, che nel frattempo si era nascosto, alla fine fu scoperto e dovette lasciare la Svizzera assieme ad altri esuli tra i quali Agostino e Giovanni Ruffini.

Mazzini fondò altri movimenti politici per la liberazione e l'unificazione di altri stati europei: la Giovine Germania, la Giovine Polonia e infine la Giovine Europa.

La Giovane Europa fu la più grande concretizzazione del suo pensiero di libertà delle nazioni. In questa occasione egli estende dunque il desiderio di libertà del popolo (che si sarebbe attuato con la repubblica) a tutte le nazioni Europee. Essa viene fondata nel 1834 presso Berna in accordo con altri rivoluzionari stranieri. Il movimento ebbe anche un forte ruolo di promozione dei diritti della donna, come testimonia l'opera di numerose mazziniane, tra cui Giorgina Saffi, la moglie di Aurelio Saffi, uno dei più stretti collaboratori di Mazzini e suo erede per quanto riguarda il mazzinianesimo politico.
Mazzini continuò a perseguire il suo obiettivo dall'esilio ed in mezzo alle avversità con inflessibile costanza. Tuttavia, nonostante la sua perseveranza, l'importanza delle sue azioni fu più ideologica che pratica. Dopo il fallimento dei moti del 1848, durante i quali Mazzini era stato a capo della breve esperienza della Repubblica Romana insieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini, i nazionalisti italiani cominciarono a vedere nel re del Regno di Sardegna e nel suo Primo Ministro Camillo Benso conte di Cavour le guide del movimento di riunificazione. Ciò volle dire separare l'unificazione dell'Italia dalla riforma sociale e politica invocata da Mazzini. Cavour fu abile nello stringere un' alleanza con la Francia e nel condurre una serie di guerre che portarono alla nascita dello stato italiano tra il 1859 e il 1861, ma la natura politica della nuova compagine statale era ben lontana dalla repubblica mazziniana.



Il letto di morte di Mazzini, distrutto durante i bombardamenti di Pisa del 1943

DOPO L'UNITA'

Il 25 febbraio 1866 Messina fu chiamata al voto per eleggere i suoi deputati al nuovo parlamento di Firenze. Mazzini era candidato, nel secondo collegio, ma non poté fare campagna elettorale perché esule a Londra. Pendevano sul suo capo due condanne a morte: una comminata dal tribunale di Genova per i moti del 1857 (il 19 novembre 1857, in primo grado, il 20 marzo 1858 in appello); un'analoga condanna a morte comminata era stata dal tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Luigi Napoleone.
Inaspettatamente, Mazzini vinse con larga messe di voti (446). Il 24 marzo, dopo due giorni di discussione, la Camera annullava l'elezione in virtù delle condanne precedenti.
Due mesi dopo gli elettori del secondo collegio di Messina tornarono alle urne: vinse di nuovo Mazzini. La Camera, dopo una nuova discussione, il 18 giugno riannullò l'elezione. Il 18 novembre Mazzini viene rieletto una terza volta; dalla Camera, questa volta, arrivò la convalida.
Mazzini, tuttavia, anche nel caso fosse giunta un'amnistia o una grazia, rifiutò la carica per non dover giurare fedeltà allo Statuto albertino, la costituzione dei monarchi sabaudi. Egli infatti non accettò mai la monarchia e continuò a lottare per gli ideali repubblicani.
Nel 1868 lasciò Londra e si stabilì in Svizzera, a Lugano. Nel 1870 furono amnistiate le due condanne a morte comminate al tempo del Regno di Sardegna. Mazzini rientrò in Italia e si dedicò subito all'organizzazione di moti popolari in appoggio alla conquista dello Stato della Chiesa. L'11 agosto partì in nave per la Sicilia, ma il 14, all'arrivo nel porto di Palermo, fu tratto in arresto e recluso nel carcere militare di Gaeta.
Costretto di nuovo all'esilio, riuscì a rientrare sotto il falso nome di Giorgio Brown a Pisa, il 7 febbraio del 1872. Qui, malato già da tempo, visse nascosto nell'abitazione di Pellegrino Rosselli fino al giorno della sua morte, il 10 marzo dello stesso anno, quando la polizia del Regno d'Italia stava nuovamente per arrestarlo.

La notizia della sua morte si diffuse rapidamente, commuovendo l'Italia. Il suo corpo fu imbalsamato dallo scienziato Paolo Gorini, appositamente fatto accorrere da Lodi. Una folla immensa partecipò ai funerali svolti nella città toscana il pomeriggio del 14 marzo, accompagnando il feretro al treno in partenza per Genova, dove venne sepolto al Cimitero monumentale di Staglieno.

Il mausoleo, in stile neoclassico, reca all'esterno la scritta "Giuseppe Mazzini" e all'interno della cripta sono presenti numerose bandiere tricolori repubblicane e iscrizioni lasciate da gruppi mazziniani o da personalità come Carducci, e sulla lapide la scritta "Giuseppe Mazzini. Un Italiano" e l'epitaffio:
« Il corpo a Genova, il nome ai secoli, l'anima all'umanità »

(Iscrizione sulla tomba a Staglieno)



Notizia dell'arresto di Giuseppe Mazzini, Gazzetta piemontese del 16 agosto 1870.


LE IDDE DIFFUSE IN EUROPA ALL'EPOCA DI MAZZINI
* La nuova concezione romantica della storia

Nasceva allora una nuova concezione della storia che smentiva quella degli illuministi basata sulla capacità degli uomini di costruire e guidare la storia con la ragione. Le vicende della Rivoluzione francese e il periodo napoleonico avevano dimostrato che gli uomini si propongono di perseguire alti e nobili fini che s'infrangono dinanzi alla realtà storica. Il secolo dei lumi era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella tirannide napoleonica che, mirando alla realizzazione di un'Europa al di sopra delle singole nazioni, aveva determinato invece la ribellione dei singoli popoli proprio in nome del loro sentimento di nazionalità.

Secondo questa visione romantica dunque la storia non è guidata dagli uomini ma è Dio che agisce nella storia; esisterebbe dunque una Provvidenza divina che s'incarica di perseguire fini al di là di quelli che gli uomini si propongono di conseguire con la loro meschina ragione.
Da questa concezione romantica della storia, intesa come opera della volontà divina si promanano due visioni contrapposte: una è la prospettiva reazionaria vede nell'intervento di Dio nella storia una sorta di avvento di un'apocalisse che metta fine alla sciagurata storia degli uomini. Napoleone è stato con le sue continue guerre l'Anticristo di questa apocalisse. Dio segnerà la fine della storia malvagia e falsamente progressiva ed allora agli uomini non rimarrà che volgersi al passato per preservare e conservare quanto di buono era stato realizzato. Si cercherà dunque in ogni modo di cancellare tutto ciò che è accaduto dalla Rivoluzione a Napoleone restaurando il passato.

La concezione reazionaria contro cui Mazzini combattè strenuamente assume un aspetto politico-religioso che troviamo nel pensiero di François-René de Chateaubriand che nel Génie du christianisme (Genio del Cristianesimo) attaccava le dottrine illuministiche prendendo le difese del cristianesimo e soprattutto nell'ideologia mistica teocratica di Joseph De Maistre, che arriva nell'opera Du pape (Il papa) (1819) al punto di auspicare un ritorno dell'alleanza tra il trono e l'altare riproponendo il modello delle comunità medioevali protette dalla religione tradizionale contro le insidie del liberalismo e del razionalismo.

Un'altra prospettiva, che nasce paradossalmente dalla stessa concezione della storia guidata dalla divinità, è quella che potremo definire liberale che vede nell'azione divina una volontà diretta, nonostante tutto, al bene degli uomini escludendo che nei tempi nuovi ci sia una sorta di vendetta di Dio che voglia far espiare agli uomini la loro presunzione di creatori di storia. È questa una visione provvidenziale, dinamica della storia che troviamo in Saint Simon con la concezione di un nuovo cristianesimo per una nuova società o in Lamennais che vede nel cattolicesimo una forza rigeneratrice della vita sociale. Una concezione progressiva quindi che è presente in Italia nell'opera letteraria di Alessandro Manzoni e nel pensiero politico di Gioberti con il progetto neoguelfo e nell'ideologia mazziniana.

LA CONCEZIONE MAZZINIANA
« Costituire (...) l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana »

(G. Mazzini, Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia)
Dio e Popolo
« Noi cademmo come partito politico. Dobbiamo risorgere come partito religioso. L'elemento religioso è universale, immortale: universalizza e collega. Ogni grande rivoluzione ne serba impronta, e lo rivela nella propria origine o nel fine che si propone. Per esso si fonda l'associazione. Iniziatori d'un nuovo mondo, noi dobbiamo fondare l'unità morale, il cattolicismo Umanitario »


Il pensiero politico "mazziniano" deve dunque essere collocato in questa temperie di romanticismo politico-religioso che dominò in Europa dopo la rivoluzione del 1830 ma che era già presente nei contrasti al Congresso di Vienna tra gli ideologi che proponevano un puro e semplice ritorno al passato prerivoluzionario e i cosiddetti politici che pensavano che bisognasse operare un compromesso con l'età trascorsa.
Monumento a Giuseppe Mazzini sull'Aventino a Roma

Alcuni storici hanno fatto risalire la concezione religiosa di Mazzini all'educazione ricevuta dalla madre fervente giansenista ma, secondo altri, la visione religiosa di Mazzini non coinciderebbe con quella di nessuna religione rivelata. Il personale concetto di Dio mazziniano, che per alcuni tratti è avvicinabile al deismo settecentesco, con evidenti influssi di Rousseau, esige la laicità dello Stato, e l'assenza di intermediari: per ciò e per il ruolo avuto nella storia umana e italiana Mazzini definì il Papato "la base d'ogni autorità tirannica"[14]. Rifiuta l'ateismo materialista ma anche il trascendente in favore dell'immanente: crede nella reincarnazione, per poter migliorare di continuo il mondo e migliorare sè stessi. La sua è stata anche definita una "religione civile" dove la politica svolgeva il ruolo della fede e dove la divinità si incarna in modo panteista nell'Universo e nell'Umanità stessa, che attua la Legge che nel Progresso si rivela.

Egli era convinto che fosse ormai presente nella storia un nuovo ordinamento divino nel quale la lotta per raggiungere l'unità nazionale assumeva un significato provvidenziale. «Operare nel mondo significava per il Mazzini collaborare all'azione che Dio svolgeva, riconoscere ed accettare la missione che uomini e popoli ricevono da Dio». Per questo bisogna «mettere al centro della propria vita il dovere senza speranza di premio senza calcoli di utilità.». Quello di Mazzini era un progetto politico ma mosso da un imperativo religioso che nessuna sconfitta, nessuna avversità avrebbe potuto indebolire. «Raggiunta questa tensione di fede, l'ordine logico e comune degli avvenimenti veniva capovolto; la disfatta non provocava l'abbattimento, il successo degli avversari non si consolidava in ordine stabile.»

La storia dell'umanità dunque sarebbe una progressiva rivelazione della Provvidenza divina che di tappa in tappa si dirige verso la meta predisposta da Dio. Esaurito il compito del Cristianesimo, chiusasi l'era della Rivoluzione francese ora occorreva che i popoli prendessero l'iniziativa per «procedere concordi verso la meta fissata al progresso umano». Ogni singolo individuo, come la collettività, tutti devono attuare la missione che Dio ha loro affidato e che attraverso la formazione ed educazione del popolo stesso, reso consapevole della sua missione, si realizzerà attraverso due fasi: Patria e Umanità.



Monumento a Giuseppe Mazzini sull'Aventino a Roma



PATRIA E UMANITA'

Senza una patria libera nessun popolo può realizzarsi né compiere la missione che Dio gli ha affidato; il secondo obiettivo sarà l'Umanità che si realizzerà nell'associazione dei liberi popoli sulla base della comune civiltà europea attraverso quello che Mazzini chiama il banchetto delle Nazioni sorelle. Un obiettivo dunque ben diverso da quella confederazione europea immaginata da Napoleone dove la Francia avrebbe esercitato il suo primato egemonico di Grande Nation. La futura unità europea non si realizzerà attraverso una gara di nazionalismi ma attraverso una nobile emulazione dei liberi popoli per costruire una nuova libertà.

Il processo di costruzione europea, secondo Mazzini, doveva svolgersi prima di tutto attraverso l'affermazione delle nazionalità oppresse, come quelle facenti parte dell'Impero Asburgico, e poi anche di quelle che non avevano ancora raggiunto la loro unità nazionale nel singolo Stato.

A queste ultime appartenevano sia il popolo italiano, quello germanico e il polacco. Per ottenere la coscienza rivoluzionaria necessaria al perseguimento di questo programma politico Mazzini fondò la Giovine Europa, come associazione rivoluzionaria europea che aveva come scopo specifico l'agire in modo comune, dal basso e usando strumenti rivoluzionari e democratici per realizzare nei singoli Stati una coscienza nazionale e rivoluzionaria.

L'INIZIATIVA ITALIANA

In questo processo unitario europeo spetta all'Italia un'alta missione: quella di riaprire, conquistando la sua libertà, la via al processo evolutivo dell'Umanità. La redenzione nazionale italiana apparirà improvvisa come una creazione divina al di fuori di ogni inutile e inefficace metodo graduale politico diplomatico di tipo cavouriano. L'iniziativa italiana che avverrà sulla base della fraternità tra i popoli e non rivendicando alcuna egemonia, come aveva fatto la Francia, consisterà quindi nel dare l'esempio per una lotta che porterà alla sconfitta delle due colonne portanti della reazione, di quella politica dell'Impero Asburgico e di quella spirituale della Chiesa cattolica.

Raggiunti gli obiettivi primari dell'unità e della Repubblica attraverso l'educazione e l'insurrezione del popolo, espressi dalla formula di pensiero e azione, l'Italia darà quindi il via a questo processo di unificazione sempre più vasta per la creazione di una terza civiltà formata dall'associazione di liberi popoli.



Mausoleo a Giuseppe Mazzini nel cimitero monumentale di Staglieno, realizzata dall'architetto mazziniano Gaetano Vittorino Grasso (1849-1899)




LA FUNZIONE DELLA POLITICA

La politica è scontro tra libertà e dispotismo e tra queste due forze non è possibile trovare un compromesso: si sta svolgendo una guerra di principi che non ammette transazioni; Mazzini esorta la popolazione a non accontentarsi delle riforme che erano degli accomodamenti gestiti dall'alto: non radicavano, cioè, nello spirito del tempo quella libertà e quell'uguaglianza di cui il popolo aveva bisogno.

La logica della politica è logica di democrazia e libertà, non accettabili dalle forze reazionarie; contro di esse è necessaria una brusca rottura rivoluzionaria: alla testa del popolo vi dovrà essere la classe colta (che non può più sopportare il giogo dell'oppressione) e i giovani (che non possono più accettare le anticaglie dell'antico regime). Questa rivoluzione deve portare alla Repubblica, la quale garantirà l'istruzione popolare.

La rivoluzione, che è anche pedagogico strumento di formazione di virtù personali e collettive, deve iniziare per ondate, accendendo focolai di rivolta che incitino il popolo inconsapevole a prendere le armi. Una volta scoppiata la rivoluzione si dovrà costituire un potere dittatoriale (inteso come potere straordinario alla maniera dell'Antica Roma, non come tirannide) che gestisca temporaneamente la fase post-rivoluzionaria. Il governo verrà restituito al popolo non appena il fine della rivoluzione verrà raggiunto, il prima possibile.

La Giovane Italia deve educare alla gestione della cosa pubblica, ad essere buoni cittadini, non è, perciò, esclusivamente uno strumento di organizzazione rivoluzionaria. Il popolo deve avere diritti e doveri, mentre la Rivoluzione Francese si è concentrata esclusivamente sui diritti individuali: fermandosi ai diritti dell'individuo aveva dato vita ad una società egoista; l'utile per una società non va mai considerato secondo il bene di un singolo soggetto ma secondo il bene collettivo.

Mazzini non crede nell'eguaglianza predicata dal marxismo e al sogno della proprietà comune sostituisce il principio dell'associazionismo, che è comunque un superamento dell'egoismo individuale.

LA QUESTIONE SOCIALE

Mazzini rifiuta il marxismo convinto com'è che per spingere il popolo alla rivoluzione sia prioritario indicargli l'obiettivo dell'unità, della repubblica e della democrazia. Ma Mazzini fu tra i primi a considerare la grave questione sociale presente che era soprattutto in Italia la questione contadina, come gli indicava Carlo Pisacane, ma egli pensava che questa dovesse essere affrontata e risolta solo dopo il raggiungimento dell'unità nazionale e non attraverso lo scontro delle classi, ma con una loro collaborazione, da raggiungersi però organizzando l'associazionismo ed il mutualismo fra gli operai, il soggetto più debole.


Un programma il suo di solidarietà nazionale che se non contemplava l'autonomia culturale e politica del proletariato non si rivolse solo al ceto medio cittadino, agli intellettuali, agli studenti, fra i quali raccolse i consensi più ampi, ma anche agli artigiani ed ai settori più consapevoli dei propri diritti fra gli operai.

Mazzini criticò il marxismo e fu da Marx criticato per gli aspetti dottrinali idealistici, e per gli atteggiamenti da teopompo, da inviato di Dio, per l'atteggiamento profetico che egli assumeva nel suo ruolo di educatore religioso e politico del popolo.
Mazzini criticava i socialisti per il proclamato internazionalismo dei loro tempi, venato di anarchismo e di forte negazionismo, per l'attenzione da essi rivolta verso gli interessi di una sola classe: il proletariato; inoltre egli definiva arbitrario e impossibile a pretendere l'abolizione della proprietà privata: così si sarebbe dato un colpo mortale all'economia che non avrebbe premiato più i migliori. Ma la critica maggiore era rivolta contro il rischio che le ideologie socialiste estremistiche portassero a un nuovo totalitarismo.

Da questa critiche ne venne la valutazione negativa di Mazzini sulla rivolta che portò alla Comune parigina del 1871. Mentre per Marx quello della Comune era stato un primo tentativo di distruggere lo stato accentratore borghese realizzando dal basso un nuovo tipo di stato, Mazzini invece criticò la Comune vedendo in essa la fine della nazione, la minaccia di uno smembramento della Francia.

Per salvaguardare l'economia e allo stesso tempo per tutelare i più poveri, Mazzini punta su una forma di lavoro cooperativo: l'operaio dovrà guardare oltre una lotta basata solo sul salario ma promuovere spazi via via crescenti di economia sociale con elementi di «piena responsabilità e proprietà sull'impresa».

Mazzini puntava sul superamento in senso sociale e democratico del capitalismo imprenditoriale classico, anticipando in questo sia le teorie distribuzioniste, sia le teorie che esaltano il valore dell'associazione fra i produttori.

La sua influenza sulla prima fase del movimento operaio fu per questo molto importante ed anche il Fascismo, in particolare la sua corrente "repubblicana" e socializzatrice, si ispirerà al pensiero economico mazziniano come Terza Via tra il modello capitalista e quello marxista.


LA GIOVINE ITALIA
« Trovai tutti persuasi che la Giovine Italia era pazzia; pazzia le sette, pazzie il cospirare, pazzie le rivoluzioncine fatte sino a quel giorno, senza capo né coda »

(Massimo d'Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna)
« Su queste classi [...] così fortemente interessate al mantenimento dell'ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani presso i quali l'esperienza non ha ancora modificate le dottrine assorbite nell'atmosfera eccitante della scuola, si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una setta inasprita dalla sventura. »

(Camillo Benso conte di Cavour)

Nel 1831 Mazzini si trovava a Marsiglia in esilio dopo l'arresto e il processo subito l'anno prima in Piemonte a causa della sua affiliazione alla Carboneria. Non potendosi provare la sua colpevolezza infatti la polizia sabauda lo costrinse a scegliere tra il confino in un paesino del Piemonte e l'esilio. Mazzini preferì affrontare l'esilio e nel febbraio del 1831 passò in Svizzera, da qui a Lione e infine a Marsiglia. Qui entrò in contatto con i gruppi di Filippo Buonarroti e col movimento sainsimoniano allora diffuso in Francia.

Con questi si avviò un'analisi del fallimento dei moti nei ducati e nelle Legazioni pontificie del 1831.

Si concordò sul fatto che le sette carbonare avevano fallito innanzitutto per la contraddittorietà dei loro programmi e per l'eterogeneità delle classi che ne facevano parte. Non si era riusciti poi a mettere in atto un collegamento più ampio delle insurrezioni per le ristrettezze provinciali dei progetti politici, com'era accaduto nei moti di Torino del 1821 quand'era fallito ogni tentativo di collegamento con i fratelli lombardi. Infine bisognava desistere, come nel 1821, dal ricercare l'appoggio dei principi e, come nei moti del '30-31, l'aiuto dei francesi.

Con la fondazione della Giovine Italia nel 1831 il movimento insurrezionale andava organizzato su precisi obiettivi politici: indipendenza, unità, libertà. Occorreva poi una grande mobilitazione popolare poiché la liberazione italiana non si poteva conseguire attraverso l'azione di pochi settari ma con la partecipazione delle masse. Rinunciare infine ad ogni concorso esterno per la rivoluzione: «La Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione».

Gli strumenti per raggiungere queste mete erano l'educazione e l'insurrezione. Quindi bisognava che la Giovane Italia perdesse il più possibile il carattere di segretezza, conservando quanto necessario a difendersi dalle polizie, ma acquistasse quello di società di propaganda, un'«associazione tendente anzitutto a uno scopo di insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno» anche attraverso il giornale La Giovine Italia, fondato nel 1832 - del messaggio politico della indipendenza, dell'unità e della repubblica.

Negli anni 1833 e 1834, durante il periodo dei processi in Piemonte e il fallimento della spedizione di Savoia, l'associazione scomparve per quattro anni, ricomparendo solo nel 1838 in Inghilterra. Dieci anni dopo, il 5 maggio 1848, l'associazione fu definitivamente sciolta da Mazzini che fondò, al suo posto, l'"Associazione Nazionale Italiana".


IL FALLIMENTO DEL MOTO SAVOIA(1833)

Entusiastiche adesioni al programma della Giovane Italia si ebbero soprattutto tra i giovani in Liguria, in Piemonte, in Emilia e in Toscana che si misero subito alla prova organizzando negli anni 1833-34 una serie di insurrezioni che si conclusero tutte con arresti, carcere e condanne a morte.

Nel 1833 organizza il suo primo tentativo insurrezionale che aveva come focolai rivoluzionari Chambéry, Torino, Alessandria e Genova dove contava vaste adesioni nell'ambiente militare. Ma prima ancora che l'insurrezione iniziasse la polizia sabauda a causa di una rissa avvenuta fra i soldati in Savoia, scoprì e arrestò molti dei congiurati, che furono duramente perseguiti poiché appartenenti a quell'esercito sulla cui fedeltà Carlo Alberto aveva fondato la sicurezza del suo potere. Fra i condannati figuravano i fratelli Giovanni e Jacopo Ruffini, amico personale di Mazzini e capo della Giovine Italia di Genova, l'avvocato Andrea Vochieri e l'abate torinese Vincenzo Gioberti. Tutti subirono un processo dal tribunale militare, e dodici furono condannati a morte, fra questi anche il Vochieri, mentre Jacopo Ruffini pur di non tradire si uccise in carcere mentre altri riuscirono a salvarsi con la fuga.

IL TENTATIVO D'INVASIONE DELLA SAVOIA E IL MOTO DI GENOVA (1834)

Il fallimento del primo moto non fermò Mazzini, convinto che era il momento opportuno e che il popolo lo avrebbe seguito. Si trovava a Ginevra, quando assieme ad altri italiani e alcuni polacchi, organizzava un'azione militare contro lo stato dei Savoia. A capo della rivolta aveva messo il generale Gerolamo Ramorino, che aveva già preso parte ai moti del 1821, questa scelta però si rivelò un fallimento, perché il Ramorino si era giocato i soldi raccolti per l'insurrezione e di conseguenza rimandava continuamente la spedizione, tanto che quando il 2 febbraio 1834, si decise a passare con le sue truppe il confine con la Savoia, la polizia, ormai allertata da tempo, disperse i volontari con molta facilità.

Nello stesso tempo doveva scoppiare una rivolta a Genova, sotto la guida di Giuseppe Garibaldi, che si era arruolato nella marina da guerra sarda per svolgere propaganda rivoluzionaria tra gli equipaggi. Quando giunse sul luogo dove avrebbe dovuto iniziare l'insurrezione però, non trovò nessuno, e così rimasto solo, dovette fuggire. Fece appena in tempo a salvarsi dalla condanna a morte emanata contro di lui, salendo su una nave in partenza per l'America del Sud dove continuerà a combattere per la libertà dei popoli.

Mazzini, invece, poiché aveva personalmente preso parte alla spedizione con Ramorino, fu espulso dalla Svizzera e dovette cercare rifugio in Inghilterra. Lì continuò la propria azione politica attraverso discorsi pubblici, lettere e scritti su giornali e riviste, aiutando a distanza, gli italiani, a mantenere il desiderio di unità e indipendenza. Anche se l'insuccesso dei moti fu assoluto, dopo questi eventi, la linea politica di Carlo Alberto mutò, temendo che reazioni eccessive potessero diventare pericolose per la monarchia.

LA TEMPESTA DEL DUBBIO (1836)

Altri tentativi pure falliti si ebbero a Palermo, in Abruzzo, nella Lombardia austriaca, in Toscana. Il fallimento di tanti generosi sforzi e l'altissimo prezzo di sangue pagato fecero attraversare a Mazzini quella che egli chiamò la tempesta del dubbio da cui uscì religiosamente convinto ancora una volta della validità dei propri ideali politici e morali. Dall'esilio di Londra (1837), dopo essere stato espulso dalla Svizzera, riprese quindi il suo apostolato insurrezionale.

I FRATELLI BANDIERA (1844)


Nobili, figli dell'ammiraglio Francesco Bandiera e, a loro volta, ufficiali della Marina da guerra austriaca, aderirono alle idee mazziniane e fondarono una loro società segreta, l'Esperia[23] e con essa tentarono di effettuare una sollevazione popolare nel Sud Italia.

Il 13 giugno 1844, i fratelli Emilio e Attilio Bandiera partirono da Corfù (dove avevano una base allestita con l'ausilio del barese Vito Infante) alla volta della Calabria seguiti da 17 compagni, dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e dal corso Pietro Boccheciampe.

Il 15 marzo dello stesso anno era loro giunta infatti la notizia dello scoppio di una rivolta a Cosenza che essi credevano condotta nel nome di Mazzini. In realtà non solo la ribellione non aveva alcuna motivazione patriottica ma era già stata domata dall'esercito borbonico. Il 16 giugno 1844 quando sbarcarono alla foce del fiume Neto, vicino Crotone appresero che la rivolta era già stata repressa nel sangue e al momento non era in corso alcuna ribellione all'autorità del re.

Il Boccheciampe, appresa la notizia che non c'era alcuna sommossa a cui partecipare, sparì e andò al posto di polizia di Crotone per denunciare i compagni.

I due fratelli vollero lo stesso continuare l'impresa e partirono per la Sila.

Subito iniziarono le ricerche dei rivoltosi ad opera delle guardie civiche borboniche, aiutate da comuni cittadini che credevano i mazziniani dei briganti; dopo alcuni scontri a fuoco, vennero catturati (meno il brigante Giuseppe Meluso, buon conoscitore dei luoghi, che riuscì a sfuggire alla cattura) e portati a Cosenza, dove i fratelli Bandiera con altri 7 compagni vennero fucilati nel Vallone di Rovito il 25 luglio 1844.

Il re Ferdinando II ringraziò la popolazione locale per il grande attaccamento dimostrato alla Corona e la premiò concedendo medaglie d'oro e d'argento e pensioni generose.


Dopo i moti del 1848, Mazzini fu a capo, con Aurelio Saffi e Carlo Armellini della Repubblica Romana, soppressa dalla reazione francese e pontificia nel 1849. Fu l'ultima rivolta a cui Mazzini prese parte direttamente.



esecuzione dei fratelli Bandiera


Dopo i moti del 1848, Mazzini fu a capo, con Aurelio Saffi e Carlo Armellini della Repubblica Romana, soppressa dalla reazione francese e pontificia nel 1849. Fu l'ultima rivolta a cui Mazzini prese parte direttamente.

LA SPEDIZIONE A SAPRI (1857)


Il piano originale, secondo il metodo insurrezionale mazziniano, prevedeva di accendere un focolaio di rivolta in Sicilia dove era molto diffuso il malcontento contro i Borboni, e da lì estenderla a tutto il Mezzogiorno d'Italia. Successivamente invece si pensò più opportuno partendo dal porto di Genova di sbarcare a Ponza per liberare alcuni prigionieri politici lì rinchiusi, per rinforzare le file della spedizione e infine dirigersi a Sapri, che posta al confine tra Campania e Basilicata, era ritenuta un punto strategico ideale per attendere dei rinforzi e marciare su Napoli.

Il 25 giugno 1857 Carlo Pisacane s'imbarcò con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, diretto a Tunisi. Il 26 giugno sbarcò a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici per il resto delinquenti comuni, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico. La sera i congiurati sbarcarono a Sapri, ma non trovarono ad accoglierli quelle masse rivoltose che si attendevano. Anzi furono affrontati dalle falci dei contadini ai quali le autorità borboniche avevano per tempo annunziato lo sbarco di una banda di ergastolani evasi dall'isola di Ponza. Il 1º luglio, a Padula vennero circondati e 25 di loro furono massacrati dai contadini. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati ai gendarmi.

Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscirono a fuggire a Sanza dove furono ancora aggrediti dalla popolazione. Perirono in 83. Pisacane e Falcone si suicidarono con le loro pistole, mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati nel gennaio del 1858. Condannati a morte, furono graziati dal Re, che tramutò la pena in ergastolo.

IL SENSO DELL'IMPRESA

Pur essendo quella di Sapri un'impresa tipicamente mazziniana condotta senza speranza di premio in effetti Pisacane si era allontanato dal credo politico del Maestro per accostarsi a un socialismo libertario espresso dalla formula libertà e associazione.

Contrariamente a Mazzini che riguardo alla questione sociale proponeva una soluzione interclassista solo dopo aver risolto il problema unitario, Pisacane pensava infatti che per arrivare ad una rivoluzione patriottica unitaria e nazionale occorresse prima risolvere la questione contadina che era quella della riforma agraria. Come lasciò scritto nel suo testamento politico in appendice al Saggio sulla rivoluzione, «profonda mia convinzione di essere la propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero».

Vicino agli ideali mazziniani era Pisacane invece quando aggiungeva nello stesso scritto che quand'anche la rivolta fallisse «ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici... che se il nostro sacrifico non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire.» (C.Pisacane op.cit.)

La spedizione fallita ebbe in effetti il merito di riproporre all'opinione pubblica italiana la "questione napoletana", la liberazione cioè del Mezzogiorno italiano dal malgoverno borbonico che il politico inglese William Ewart Gladstone definiva «negazione di Dio eretta a sistema di governo».

Infine il tentativo di Pisacane sembrava riproporre la possibilità di un'alternativa democratico-popolare come soluzione al problema italiano: era un segnale d'allarme che costituì per il governo di Vittorio Emanuele II uno stimolo ad affrettare i tempi dell'azione per realizzare la soluzione diplomatico militare dell'unità italiana.


Mazzini appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Dopo l'Unità riprese la lotta repubblicana, ma le persecuzioni della polizia sabauda e le condizioni di salute limitarono i suoi ultimi tentativi.

IL RUOLO STORICO DI MAZZINI

«Suscitò continuamente energie, affascinò per quarant'anni ogni ondata di gioventù ...e intanto gli anziani gli sfuggivano...».

Quasi tutti i grandi personaggi del Risorgimento aderirono al mazzinianesimo ma pochi vi restarono. Il contenuto religioso profetico del pensiero del Maestro, in un certo modo rivelatore di una nuova fede, imbrigliava l'azione politica. Mazzini infatti non aveva «la duttilità e la mutevolezza necessaria per dominare e imprigionare razionalmente le forze». Per questo occorreva una capacità di compromesso politico propria dell'uomo di governo come fu Cavour.

«Il compito di Mazzini fu invece quello di creare l'"animus"» . Quando sembrava che il problema italiano non avesse via d'uscita «ecco per opera sua la gioventù italiana sacrificarsi in una suprema protesta. I sacrifici parevano sterili» ma invece risvegliavano l'opinione pubblica italiana e europea.

«La tragedia della Giovine Italia impose il problema italiano a una sempre più vasta sfera d'Italiani: che reagì sì con un programma più moderato ma infine entrò in azione...» e quegli stessi ex mazziniani che avevano rinnegato il Maestro aderendo al moderatismo riformista alla fine dovettero abbandonare ogni progetto federalista e acconsentire all'entusiasmo popolare suscitato dalle idee mazziniane di un riordinamento unitario italiano.

MAZZINI CONTESO TRA FASCISMO E ANTIFASCISMO

L'eredità ideale e politica del pensiero mazziniano è stata a lungo oggetto di dibattito tra opposte interpretazioni, in particolare durante il Fascismo e la Resistenza.

Nel Ventennio fascista Mazzini fu oggetto di citazioni in libri, articoli, discorsi, fino al punto d'essere considerato una sorta di precursore del regime di Mussolini.

La popolarità di Mazzini durante il periodo fascista è dovuta anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei Fasci di combattimento, iniziando il loro percorso di avvicinamento a Mussolini durante la battaglia interventista, soprattutto nelle aree dove maggiore era la presenza del PRI, cioè in Romagna e nelle Marche. Nel 1917, sulle pagine de L'Iniziativa, l'organo di stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo del nostro interventismo».

Particolare fu il caso di Bologna, città in cui i repubblicani Pietro Nenni, Guido e Mario Bergamo presero parte attivamente nel 1919 alla fondazione del primo Fascio di combattimento emiliano per poi abbandonarlo poco dopo diventando avversari del fascismo.

Tra i più famosi repubblicani che aderirono al fascismo vi furono Italo Balbo (che si era laureato con una tesi su "Il pensiero economico e sociale di Mazzini" e del quale lo storico Claudio Segrè ha scritto: «Balbo, prima di aderire al Fascismo nel '21, esitò a lasciare i repubblicani fino all'ultimo momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia iscrizione»), Curzio Malaparte e Berto Ricci, che nel Fascismo vedeva la perfetta sintesi fra «la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini».

Secondo lo storico Roberto Pertici «il Fascismo era considerato il compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell'inserimento e nell'integrazione delle masse nello stato nazionale».

I fascisti, inoltre, rivendicavano una continuità con il pensiero mazziniano anche riguardo l'idea di patria, la concezione spirituale della vita, l'importanza dell'educazione di massa come strumento per creare un "uomo nuovo" ed una dottrina economica ispirata alla collaborazione tra le classi sociali.

Lo storico Massimo Baioni scrive a proposito della contemporanea celebrazione nel 1932 del 50º anniversario della morte di Garibaldi e del decennale della Marcia su Roma: «Le principali manifestazioni del 1932 sembravano confermare il nesso tra il bisogno di presentare il fascismo come erede delle migliori tradizioni nazionali e la volontà non meno forte ad enfatizzarne le componenti moderne, che avrebbero dovuto distinguerlo come originale esperimento politico e sociale».

Negli anni della Resistenza (1944-'45) la situazione si complica maggiormente: il Fascismo della Repubblica Sociale Italiana intensifica ulteriormente i suoi riferimenti a Mazzini (la data del giuramento della Guardia Nazionale Repubblicana venne fissata il 9 febbraio, anniversario della Repubblica Romana del 1849 ma anche gli antifascisti, in particolare i partigiani di Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli, iniziano a richiamarsi sempre più apertamente al rivoluzionario genovese. Proprio Rosselli scrisse nel 1931 ad uno studioso inglese: «Agiamo nello spirito di Mazzini, e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la lotta dei nostri antenati per la libertà e quella di oggi».
A seguito della caduta del fascismo e dell'armistizio di Cassibile, a partire dal 1943 la lotta contro il nazifascismo vide la partecipazione dei repubblicani (il cui partito era stato sciolto dal Regime nel 1926) anche attraverso la formazione di proprie unità partigiane denominate Brigate Mazzini.

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genziana



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MessaggioInviato: Gio Giu 02, 2011 10:22    Oggetto: 2 GIUGNO Festa della REPUBBLICA 1861-2011 150°Unità d'ITALIA Rispondi citando



    EVVIVA !!! Centocinquantenario dell'Unità d'Italia

    2 Giugno 2011 tricolore nel Forum di Alessandro!!




          ......


Festa della Repubblica • tante città una sola bandiera!


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Jane



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MessaggioInviato: Gio Giu 02, 2011 19:50    Oggetto: Rispondi citando


Auguri Italia
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Antonietta68



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MessaggioInviato: Ven Giu 03, 2011 17:57    Oggetto: Rispondi citando


Festa della Repubblica, 2 giugno 2011: storia, significato e celebrazioni di una ricorrenza memorabile


Il 2 giugno viene ricordato il referendum istituzionale del 2 e 3 giugno del 1946 con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per esprimersi su quale forma di governo, monarchia o repubblica, dare
al Paese, dopo la caduta del fascismo. Si trattò della prima vera consultazione a suffragio universale della storia d’Italia e la partecipazione al voto fu altissima, circa il 90 % degli aventi diritto, per l’esattezza 24.947.187 di cittadini si recarono ai seggi elettorali. Il risultato sancì la vittoria della Repubblica con 12.717.923 voti contro i 10.719.284 ottenuti dalla Monarchia. In seguito al risultato Umberto II, allora Re d’Italia, partì per l’esilio e la XIII disposizione transitoria della nuova Costituzione vietò l’esercizio dei diritti politici ai membri ed ai discendenti di casa Savoia e l’ingresso in Italia ai discendenti maschi della famiglia. Tale disposizione venne in seguito abrogata, tanto da consentire ai Savoia di tornare in Italia il 15 marzo 2003, dopo ben 57 anni di esilio.

L’importanza e il significato del 2 giugno 1946- Si può affermare che il 2 giugno 1946 rappresentò una data epocale nella storia non solo politica, ma anche culturale economica e sociale, della nostra nazione. L’Italia usciva devastata dal secondo conflitto mondiale e sembrava a tutti gli effetti un Paese allo sbando senza più punti di riferimento. Si trattava, dunque, di ricostruire materialmente, politicamente e oseremmo dire moralmente la nazione e di dare nuove basi democratiche allo Stato. Questa data rappresenta la storia di un paese che voltava definitivamente pagina e che, tra mille difficoltà, sceglieva con convinzione la strada della democrazia, un paese che cercava di liberarsi dall’ancora dilagante cultura patriarcale e maschilista concedendo il diritto al voto anche alle donne. Il voto del 2 giugno 1946 cancellava dunque simbolicamente anche il mito dell’uomo forte così come l’aveva inteso il fascismo, incarnazione vivente dello spirito del popolo, guida e faro di una comunità altrimenti inadatta a perseguire i propri interessi. Ad esso si contrapponeva una nuova idea della sovranità popolare, un nuovo ethos condiviso, che nelle strutture repubblicane come nella stesura della Costituzione trovava la propria sublimazione. Si dava vita ad un nuovo corso democratico fondato sul tema della partecipazione e della rappresentanza. Il voto del 2 giugno 1946 rappresentò quindi per l’Italia un nuovo inizio, un riscatto morale che riusciva a far si che una intera nazione riuscisse a mettersi alle spalle, almeno in parte, le troppe umiliazioni subite.
La Festa della Repubblica non può essere però soltanto un mero momento celebrativo. Il ricordo vivo di quella data deve plasmare oggi le coscienze civili di tutti gli italiani. La salvaguardia delle conquiste decisive sul piano democratico apportate dalla successiva Costituzione, la difesa delle fondamenta repubblicane dello Stato devono porsi come imperativo morale per ogni cittadino. Il 2 giugno 1946 l’Italia riacquistava il proprio orgoglio e la propria dignità, e dopo 65 anni siamo ancora tutti chiamati a rispondere.

Dopo il 1946- Nel 1949,a quattro anni di distanza dall’esito del Referendum, il 2 giugno venne riconosciuta come festività nazionale. Prima della fondazione della Repubblica, la festa nazionale italiana era la prima domenica di giugno, anniversario della concessione dello Statuto Albertino. Con la legge 5 marzo 1977, n.54, soprattutto a causa della congiuntura economica sfavorevole, la Festa della Repubblica fu spostata alla prima domenica di giugno. Solamente nel 2000 l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi invitò il governo in carica a riportare le celebrazioni al 2 giugno. Questo avvenne con la legge n. 336 del 20 novembre 2000. Il 2 giugno festeggia quindi la nascita della nazione, in maniera analoga al 14 luglio in Francia che rappresenta l'anniversario della Presa della Bastiglia e al 4 luglio degli Stati Uniti in ricordo del 1776 in cui venne firmata la dichiarazione d'indipendenza.
Le ambasciate italiane in tutto il mondo tengono un festeggiamento cui sono invitati i Capi di Stato del Paese ospitante. Da tutto il mondo giungono al Presidente della Repubblica italiana gli auguri di tutti i capi di Stato e particolari cerimonie ufficiali hanno luogo in Italia.
Nel 1948 a giugno per la prima volta Via dei Fori Imperiali a Roma ospitò la tradizionale parata militare in onore della Repubblica. L'anno successivo, con l'ingresso del nostro paese nella NATO, ebbero luogo dieci parate militari in contemporanea sparse per tutto il Paese mentre nel 1950 la parata venne inserita nel protocollo delle celebrazioni ufficiali.

Festa della Repubblica, 2 giungo 2011: storia, significato e celebrazioni di una ricorrenza memorabileE oggi cosa rimane di un avvenimento così importante per la nostra storia? Ai giorni nostri il cerimoniale prevede la deposizione di una corona d'alloro al Milite Ignoto presso l'Altare della Patria e una parata militare alla presenza delle alte cariche dello Stato. Durante la parata militare e alla deposizione della corona d'alloro presso il Milite Ignoto, partecipano tutte le Forze Armate, le Forze di Polizia della Repubblica ed il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa Italiana. Nel 2005, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ordinò che partecipassero alla parata anche il Corpo di Polizia Municipale del comune di Roma ed il personale della Protezione Civile. Partecipano inoltre alla parata militare delegazioni militari dell'ONU, della NATO, dell'Unione Europea e alcune rappresentanze di reparti multinazionali all'interno dei quali è presente una componente italiana. In passato, la parata militare contava anche sulla sfilata di maggiore personale. Dopo l'anno 2000 l'organico fu ridotto notevolmente e nel 2006 addirittura venne eliminata la sfilata di mezzi terrestri ed aerei per logiche ragioni di contenimento dei costi.
Le celebrazioni proseguono nel pomeriggio con l'apertura alla popolazione dei giardini del palazzo del Quirinale, all'interno del quale ha la sede la Presidenza della Repubblica Italiana, con musiche eseguite dai complessi bandistici dell' Esercito Italiano, dell'Aeronautica Militare Italiana, della Marina Militare Italiana, dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia di Stato, del Corpo Forestale dello Stato e del Corpo di Polizia Penitenziaria.

Il 2 giugno 2011- Quest'anno le celebrazioni della Festa della Repubblica Italiana si intrecciano con una proiezione internazionale del 150° anniversario dell'Unita' d'Italia. Giorgio Napolitano ha infatti collegato alle tradizionali cerimonie una celebrazione della ricorrenza dell'unificazione italiana insieme con numerosi capi di Stato, di governo e di istituzioni internazionali. Le delegazioni di Stati esteri e di organizzazioni internazionali invitate che hanno accettato l'invito sono oltre ottanta e una decina di organizzazioni internazionali come Onu, Nato e Lega araba. Per tale ragione gli appuntamenti che tradizionalmente impegnano il Capo dello Stato sono stati articolati in modo differente. Il consueto ricevimento nei giardini del Quirinale è stato anticipato al 31 maggio. Il 2 giugno si svolgerà la tradizionale Parata Militare ai Fori Imperiali, alla presenza dei Capi di Stato e di governo che nel pomeriggio saranno al Quirinale per un Concerto e un Pranzo in loro onore.












































































Le foto si riferiscono alla parata militare del 2 giugno 2011


http://youtu.be/PSRhA6aGd0s

Questo è il video dell'esibizione delle Frecce Tricolori


http://youtu.be/pW7R_v2jZhM

Questo invece è il video integrale di tutta la parata.
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genziana



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MessaggioInviato: Ven Giu 10, 2011 10:39    Oggetto: 1861-10 Giugno-2011 Festa MARINA MILITARE ITALIANA La Spezia Rispondi citando



          1861 - 10 Giugno - 2011 - La Spezia

        Festa Tricolore della Marina Militare Italiana

        150° Compleanno nel 150° dell'Unità d'Italia

        alla presenza del Presidente della Repubblica





Venerdì 10 giugno, a La Spezia, la Marina Militare celebra il suo 150° compleanno, in ricordo dell'impresa di Premuda, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nell’ambito dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

La Festa della Marina ricorre nell’anniversario dell'impresa navale del 10 giugno 1918, quando, nel corso della prima guerra mondiale, il Comandante Luigi Rizzo e il Guardiamarina Giuseppe Aonzo, al comando dei “MAS 15” e “MAS 21”, attaccarono una formazione navale austriaca nelle acque antistanti Premuda (costa dalmata), provocando l'affondamento della corazzata "Santo Stefano”. ( www.marina.difesa.it )



ricordando il nostro nonno paterno, marinaio imbarcato durante la I GM, che navigò nel Mediterraneo in guerra, piero e giuly
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MessaggioInviato: Ven Giu 10, 2011 20:58    Oggetto: Rispondi citando


Mi stringe sempre il cuore quando ricordo mio nonno disperso nella I G.M., che io naturalmente non ho potuto conoscere. Sad
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